Così, vicende altrui e d’altri poste in parole, oppure deidratate nostre, agiscono su di noi come fa il sogno ed evocano stupori e palpiti, dolori e fibrillazioni d’animo che colmano la vita; di passioni narrano e alle passioni parlano e, come al mattino dopo un sogno intenso, ci restano appiccicate addosso, carta moschicida sulla veglia e sulle percezioni.
I viaggi nel tempo, quindi, esistono: dentro di noi, sussistono.
Marialaura mi viene figlia e aveva quattro anni e poco più, quasi cinque precisava, quando a quel giornalaio che mi consegnava per lei un bruscolo editoriale al giorno per rallegrarla a sera, dicevo che era presto per i libriccini perché mia figlia purtroppo era analfabeta. Sua moglie una sera mi udì e interpose proteste vive al mio dire irriverente. Ma non dire così di quella poverina, mi ammoniva, sentendo travalicato il limite di accettabilità della celia.
Marialaura era avida di favole e storie e narrazioni di vicende, ma non sapeva leggere. Positivo.
Esigeva perciò, continuamente, che io leggessi a voce alta per lei, storie e fiabe sempre nuove ogni giorno e, in mancanza di testi leggibili, per esempio durante i viaggi, che inventassi all’impronta per lei intrecci sempre nuovi e avvincenti. Riascoltava così tante volte le stesse favole che spesso chiedeva di invertire i ruoli e “leggeva” lei per me la favola della sera prima, ripetendola in realtà a memoria, ma coscienziosamente seguendo col dito le righe che fingeva di decifrare dalla pagina.
Qualche tempo dopo, da un disegno a una parola, da una riga a una frase, balbettando e sillabando cominciò a leggere da sola. Ogni giorno.
E una sera mi disse: “E’ proprio la cosa più bella del mondo”. Cosa?, le domandai. “Leggere da sola”, e la sua risata scoppiettava come cubi di ghiaccio sull’argento e nel sentirla ebbi il mio salto nel tempo, a quando, alla sua stessa età nella vecchia biblioteca comunale di Irsina trovai fra i volumi accatastati “Ivanhoe” di Walter Scott. L’eroe dei telefilm che con avarizia la TV dei ragazzi trasmetteva solo il giovedì, ora era su un libro stampato e avrei potuto leggermene le gesta in santa pace senza interruzioni né puntate da aspettare. Per la gioia, la mia risata riempì, quel giorno, l’intero municipio. “Ma è proprio appassionato”, constatò un Municipale là di presso ed essendo la mia dimestichezza con gli attributi ancora rudimentale, mi adontai del commento non comprendendone bene il senso né lo spirito. Poiché “Appassionata” era quella musica stucchevole di un tal Beethoven, (forse un amico tedesco di mio padre che gli aveva mandato dei dischi neri con la carta gialla dalla Germania e lui ne era felicissimo e me la faceva ascoltare e io più ascoltavo e meno capivo l’origine della sua gioia), ritenni disdicevole l’associazione fra il mio avventuroso eroe e quelle note di solo pianoforte che ammorbavano le nostre acatodiche serate invernali. E anche perché nel tono del commento percepivo un fondo di quella ironia di chi non concepisce passioni diverse da quella del mangiare e della soddisfazione in genere di bisogni primari e ritiene un po’ cretino chi si discosta dallo schema. A quella età pensavo fossero pochissimi i Municipali di quel tipo.
Ma il libro mi piacque e lo lessi tre volte, anche se certe parole antiche non le capivo bene. Poi venne Verne con i suoi viaggi incredibili e dopo Salgari con le sue avventure piene di mistero, e Tom Saywer e Huck Finn, e Pinocchio e presto il Tarzan di Burroughs e la jungla di Kipling e i moschettieri di Dumas. Dal film di Truffaut, Fahrenheit 451 scoprii Bradbury e, a 15 anni, un compagno mi passò Il ritratto di Dorian Gray e io gli diedi Amleto e insieme leggemmo a puntate L’età della ragione di Sartre.
Venne Pirandello e dopo Buzzati e il Tamburo di Latta di Grass, e Boll, e Simenon e Pavese con Vittorini; Freud cercava di spiegarmi che Floubert riteneva se stesso la dama della camelie mentre Moravia rimaneva del tutto Indifferente. L’Uomo senza qualità di Musil riuscii a leggerlo e anche l’Ulisse di Joice, per quanto faticosamente; ma con Proust non ce l’ho fatta, i sette volumi Einaudi in cofanetto li pagai a rate nel 1978 ma non mi è mai riuscito di andare oltre il primo: li tengo da parte per la pensione, gli altri sei. E se gli aforismi di Nietzsche non sono esattamente un bel romanzo, compensavo con la collezione di fantascienza Urania, curata da Fruttero e Lucentini e con le poesie di T.S. Eliot e i maledetti francesi e i crepuscolari italiani, Guccini compreso, e Caproni e Neruda e Scotellaro; Prevert mi dava l’orticaria e scoprii il teatro di Sartre e quello di Beckett e di Ibsen, moderandone la posologia. Devo rileggere Glauser. E starmene lontano dalle librerie. Quando esco dal libraio con i pacchi in braccio e le tasche vuote, fuori passeggia il Municipale della mia infanzia. Non dice nulla, mi guarda e sogghigna. Io volgo lo sguardo altrove e proseguo per la mia strada.
Marialaura adesso ha 15 anni. L’altro giorno mi ha chiesto se per caso non avessi un certo tal libro di Oscar Wilde intitolato Il ritratto di Dorian Gray, chè gliene aveva parlato una certa compagna di liceo.
I salti nel tempo esistono. Quella domanda ha reidratato emozioni riposte e scordate nello scintillare delle sinapsi e me le ha ridate, come fresche. Le ho dato il libro ed era come sorpresa che ne avessi una copia fra gli scaffali. Te lo regalo, le ho detto, e non ti curare dei Municipali.
Non ha capito.
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