Da qualche tempo l’inondazione di film
sentimentali, horror e di animazione è
intervallata dai rifacimenti di vecchi film di successo, come Ben-Hur, Conan,
RoboCop e c’è da aspettarsi il ritorno dell’ennesimo King Kong e Godzilla, di Uccelli
e, ahimè, di My Fair Lady.
Tempi di remake, come se il cinema non fosse
più capace di ideare nuove trame, nuovi eroi, nuovi orizzonti di pensiero e di
azione cinematografica e con l’aggravante che i rifacimenti di rado sono
all’altezza dell’originale.
Con qualche eccezione.
Spicca infatti fra i tanti, il remake 2016 del
famosissimo film del 1960 di John Sturges “I MAGNIFICI SETTE”, diretto dal regista
nero USA Antoine Fuqua che invece,
nel riproporre la nota vicenda dei sette pistoleri assunti da miti contadini
per combattere chi vuole depredarli di ogni cosa, riesce ad aggiungere originali
angolature della vicenda che rendono il film piacevole e stimolante: con questo
film, come neanche negli anni ’70 era accaduto, entra in un western la lotta di
classe e la critica anticapitalista.
Spicca il film perché, a differenza del precedente
del 1960 e del film “I 7 Samurai” di Kurosawa, capostipite della trasposizione
western, questo ha una esplicita impostazione classista e anticapitalista che nella
prima stesura della sceneggiatura del film originale che fu di Walter
Bernstein - intellettuale democratico
perseguitato negli anni ’50 per quelle presunte attività antiamericane che gli
USA vedevano in ogni pensiero libero e in ogni critica al sistema capitalistico
– era rimasta molto nel vago.
Fin
dall’inizio il film indica il capitalismo come il vero nemico dei contadini che
vogliono lavorare la terra e vivere sereni con il frutto della propria fatica, tanto
che il super-cattivo che vuole impossessarsi delle loro terre per
cercarvi giacimenti d’oro, irrompe nella chiesa, prima di darle fuoco, minaccia
i coloni che non vogliono lasciargli tutti i loro averi dichiarando, armi in
pugno: “Io vengo qui
per l’oro. L’oro. Questo paese ha identificato la democrazia con il capitalismo
e il capitalismo con Dio. Perciò voi ostacolando me, non ostacolate solo il
progresso e il capitale, ma ostacolate DIO !!
A
quella impostazione che rimase vaga nel 1960, limitata ad un episodio iniziale
di forte condanna antirazzista, il nuovo film aggiunge tesi che nel primo film
erano del tutto implicite se non assenti. A insidiare la sicurezza del
villaggio contadino sia nei 7 Samurai di Kurosawa sia nei Magnifici 7 di Sturges era una banda di desperados, delinquenti
comuni che abitualmente facevano razzie nel villaggio; in questo nuovo film di
Fuqua il “cattivo” invece è un “capitalista”, un padrone elegante
giacca-e-cravatta, uno che si impossessa di terre, le circonda di recinti e
guardie armate e le sfrutta per la propria bramosia, uno senza scrupoli che identifica
la propria rapacità con il destino del Paese e con la volontà di Dio. Un
capitalista.
Ma c’è dell’altro degno di nota: si tratta di un
regista nero che nella storia mette a capo del manipolo di “portatori
di giustizia” proprio un nero
il quale recluta via via come combattenti: un messicano, un sudcoreano
e un nativo americano (un Apache? un
Sioux? insomma uno di quelli a cui i WASP hanno rubato la terra), per andare a
salvare un villaggio di bianchi dalla rapacità di un bianco
e dei suoi sgherri. Gran parte dei bianchi del villaggio, poi, non intende
combattere per difendere la propria terra e tocca ai nostri 7 morire per
restituire la terra a quei bianchi che se ne erano impossessati e che ora erano
nel mirino di un bianco più rapace di loro. Ma c’è ancora un altro elemento
sorprendente: a capo dei pochi contadini che si mettono a combattere per la riscossa
c’è una donna, figura del tutto assente nei due film precedenti e quindi il
vessillo della riscossa è affidato alle minoranze discriminate nella realtà,
minoranze razziali, etniche e di genere.
Ma c’è dell’altro ancora, a ben guardare: dopo
che una parte della città è fuggita per non dover combattere, quelli che sono
invece rimasti e si armano per fronteggiare l’imminente attacco degli scherani
del capitalista, si adunano e marciano verso il saloon dove i 7 li attendono. La
scena dura pochi attimi e va colta al volo, ma è costruita alla perfezione: è
la copia – dinamica - della marcia dei lavoratori nel famoso quadro “Il quarto
stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo.
Basta
confrontare il fermo immagine qui accanto con il dipinto per osservare i dettagli:
il trio che precede il gruppo, la donna, il gilet e il cappello dell’uomo centrale,
l’uomo massiccio con la barba a destra, sono i dettagli, il colpo d’occhio d’insieme
è istantaneo ma netto.
Il Western si conferma un genere
universale nel quale possono confluire – come nella tragedia greca - gli elementi fondamentali del pensiero
umano e le vicende cardine della sua storia.
Conforta scoprire che sensibili
alle sorti dei lavoratori di ogni tempo vi siano registi come Fuqua e come Ken Loach, quando tocca rilevare che questa
sensibilità scarseggia invece in ambienti che per vocazione dovrebbero nutrirne
per ontologica costituzione.
Segno
dei tempi.
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