Siamo
inondati da una miriade di questue quotidiane, postali, televisive, in rete: un
proliferare incredibile di vaglia, IBAN, conti postali e numeri telefonici per
donazioni che ha davvero del grottesco.
Un
tempo la questua era affidata al sacrestano che durante le funzioni allungava
un sacchettino di stoffa nera appeso al fondo di una lunga canna che egli
infilava tra i banchi per raggiungere anche la manina più corta fra i fedeli compagni
di seduta; la pertica col sacchetto aveva sostituito il piattino per un maggior
riserbo sulle dimensioni dell’obolo elargito. Grazie al servizio postale, la
questua giungeva anche nelle case: nella buca regolarmente ci si ritrovava il Messaggero
di S. Antonio, il Giornalino di Don Bosco, le cartoline di Pasqua disegnate coi
piedi da pittori senza mani (sic !) e fra le pagine sempre umide di lacrimazzi pietosi
spuntava puntuale l’incorporato bollettino di conto corrente per l’offerta al
clero che in cambio avrebbe distribuito parole di conforto ai poveri e ai
derelitti e perdoni, purghe e indulgenze miste ai donanti per le porcherie
eventualmente commesse fra un versamento e l’altro: una sorta di vaccino a
somministrazione periodica che doveva riscuotere un certo successo, vista la
copiosità degli invii, che per quanto godessero (inspiegabilmente) di tariffe
agevolate, comportavano certo dei costi, fra stampe a colori, redazioni e
impostazioni.
Oggi
la grande colletta si avvale anche delle più moderne tecnologie che consentono
contatti pervasivi a minor costo, mentre la tecnica di aggancio dell’attenzione
rimane quella stessa – antichissima - dei più scaltri accattoni professionali
che organizzano squadre di mendicanti scelti fra bambini e deformi per più
impietosire i passanti all’uscita dal tempio, la chiesa o il supermercato (che
pur tempio è, di una divinità più smart); scorrono infatti sui monitor immagini
di bimbi malati, macilenti e denutriti, sbattuti in faccia alla gente che si
raccoglie per il pranzo davanti al desk-TV, atte a suscitare pietà e senso di
colpa negli spettatori commensali e a indurre infine la digitazione sul
telefonino del numeretto donatore. Così la coscienza è placata, il pranzo
riesce meglio, mentre nulla più si sa dei percorsi compiuti dalla somma donata.
Ma
quello che più di ogni altra cosa stupisce e insospettisce è il moltiplicarsi
continuo dei soggetti che si dedicano a mostrarci con suggestiva efficacia come
soffrono i poveri, i malati, i disabili, i terremotati, gli alluvionati, specie
i bambini, gli sventurati di ogni categoria possibile e che dopo averci ben
commossi, ci invitano a metter mano alla tasca per mandare a loro dei soldi che
– promettono solennemente – useranno esclusivamente per far star bene, sfamare,
curare, guarire, accasare, a seconda della disgrazia, gli sventurati
bisognevoli testé rappresentatici. Sembra, in certi periodi dell’anno, che ci
siano più organizzazioni di adozione a distanza che marche di detersivo per i
piatti. E qui sorge qualche domanda.
Se
si costituisce un Soggetto Benefico che si prefigge di raccogliere denaro in
favore, diciamo, dei terremotati dell’Abissinia, si capisce che ci siano molte
persone che, colpite dalla sofferenza altrui, decidano di donare parte del
proprio denaro a questo Soggetto Benefico nell’intenzione di aiutare quei
bisognosi. Bene. Si capisce meno quando questo desiderio di far del bene,
anziché manifestarsi con una donazione al preesistente Soggetto Benefico, da
parte di certuni si manifesti nel creare, a propria volta, un altro organismo parimenti
dedito alla raccolta dei fondi in favore di quegli stessi terremotati
dell’Abissinia. Di per se stessa questa azione comporta un forte spreco di quel
denaro così faticosamente raccolto a detrimento del bene donativo finale, in
quanto il raccogliere in sé, la pubblicità, la Presidenza, la Segreteria, il
telefono, l’ufficio, il fax, il PC, la stampante, la manovalanza, il conto
bancario ecc. ecc. hanno dei costi che, con il duplicarsi dei Soggetti
Benefici, inevitabilmente si duplicano e si moltiplicano, a detrimento dei
bisognosi.
Possibile
mai che la portata di questo spreco possa sfuggire a menti così altruiste e
così profondamente dedite al bene altrui?
A
Natale, quando le questue si intensificano in occasione del massiccio annuale
assalto alle tredicesime, ho aderito a una colletta che in cambio di una
donazione minimale di € 10 in favore di uno dei tanti enti di ricerca su una
malattia, offriva un pacco di cioccolatini. Buoni. Da quel giorno hanno preso a
mandarmi per posta fior di ringraziamenti, depliant, pubblicazioni, cartoncini
con vaglia (ovviamente) che davvero non se ne può più. Ma allora: quanto
spendono in cartoncini, stampe, spedizioni? Dopo aver pagato i cioccolatini (o
le arance o i carciofini o le azalee) che mica il cioccolataio glieli dava gratis,
e dopo il “fastidio” dei dirigenti e la tipografia e la stamperia e il grafico
designer, quanto rimane per la beneficenza o per la ricerca? Quanto consuma la macchina
organizzativa di chi ha deciso di farlo per mestiere il questuante? Quanto
guadagna il fornitore di azalee? Senza la campagna di beneficenza, quanti
cioccolatini sarebbe invece riuscito a vendere il cioccolataro? Molti di meno,
ovviamente.
Nella
assoluta intrasparenza sulla reale distribuzione dei fondi, la colletta, la
(promessa) intermediazione della beneficenza, si conferma uno dei più grossi e oscuri business
dei giorni nostri.
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