Personalizzare
vuol dire adattare qualcosa al nostro gusto personale: un oggetto è personalizzato
se è reso singolarmente inconfondibile tra gli altri. Le famiglie reali, le
baronie, i casati, le città, adottavano, quale inconfondibile segno di
personalizzazione, uno stemma, un simbolo che identificava la famiglia,
l’origine e l’appartenenza anche di un oggetto, oltre che di una carrozza o
delle vacche di una mandria. Negli antichi forni di Matera, per esempio, il
pane veniva segnato da un timbro personalizzato che rendeva inconfondibile
la proprietà delle pagnotte fra le tante a cuocere. Personalizzare quindi vuol
dire adoperare un marchio originale, diverso da quello di tutti gli altri, che distingua
e identifichi il singolo senza
possibilità di confusione con altro individuo. In molti spot
pubblicitari è continuamente ripetuto l’invito a "personalizzare"
tutto quello che si maneggia quotidianamente; in realtà si tratta di fregiare
un oggetto il corpo o un veicolo, non con un personalissimo e inconfondibile
stemma, ma con la marca del prodotto reclamizzato o con i medesimi segni che
ogni altro usa. Tutt’altro che personalizzato, quindi, risulta l’armamentario
di suonerie, loghi, macchina semovente, abiti, giubbetti, zaini, diari-scolastici,
taglio dei capelli in auge presso la cittadinanza modaiola di ogni età.
Spessissimo
l’oggettistica e il corpo sono fregiati proprio con i simboli dei marchi dei
prodotti, auto moto cellulari e marche di mutande, in un continuo
inneggiare all’omologazione che ha del religioso, nella massificazione del
fenomeno e nell’ossessivo sforzo del singolo di perseguire l’obiettivo. Il
consumatore diviene cartellone pubblicitario vivente; acquistiamo la merce
e ne propaghiamo il marchio senza essere retribuiti, ma traendo addirittura
soddisfazione interiore dal poter esibire un marchio che non ci appartiene né
esalta meriti personali nostri né nostre abilità, ma che sembra avere effetto
tonificante sull’umore e sulla nostra autostima. Se poi moltitudini si
“personalizzano” con lo stesso marchio o con la stessa pettinatura o con la
stessa giubba firmata, allora si affaccia il dubbio che, al contrario, l’invito sia alla omologazione e
non alla personalizzazione.
Se ci personalizziamo a questo modo, otteniamo, al contrario, di essere confusi con chiunque altro,
rinunciando, in realtà, alla nostra personalità.
E allora non
si spiega: l’invito a personalizzarsi in questa maniera non dovrebbe aver successo
alcuno, mentre invece funziona: la gente accoglie l’invito.
Non quadra. A meno che…
Non quadra. A meno che…
E se invece la
mozione interiore che spinge a “personalizzarsi”
a quel modo fosse proprio il bisogno profondo di omologarsi? Se la gente aderisse
all’invito proprio per fare come fanno gli altri? Se desiderio di molte persone
fosse proprio quello di annullare se
stessi, scomparire come individui e sentirsi parte di un gruppo, di una
collettività, di una folla, provando quel “sentimento oceanico” di cui riferisce
Freud nel suo “Il disagio nella civiltà” come di una ipotesi avanzata da un suo
amico quale base del sentimenti religioso? Quella manifestazione dell’istinto
del branco che induce a sentirsi rassicurati se si canta in coro lo stesso
karaoke in coda nella stessa processione dietro una statua di terracotta, se si
ondeggia insieme sulla curva nord, se si recita insieme la stessa preghiera, se
si sfila nello stesso corteo con la stessa bandiera, se si è tifosi della
stessa squadra, se si ha le stesse idee degli altri, se si ha tutti la stessa fede,
se si ha tutti lo stesso colore della pelle. Se tutti insieme non amiamo quelli
diversi da noi. E ci difendiamo, e li teniamo ben lontani e se si avvicinano
troppo…
Un istinto
ancestrale, non contaminato da mediazioni culturali che risale agli albori
della civiltà ed è la radice di tutti i genocidi della storia, passati,
presenti e futuri.
La pubblicità
sfrutta questo istinto presente nella parte più sprovveduta della popolazione
per vendere inutili prodotti, altrove ci alimentano guerre infinite.
E così, alla
cintola il cellulare, come tutti, il braccio tatuato come tanti, l’ombelico cisposo allo
scoperto, le scarpe di due colori e i capelli tutti-frutti, sento che io sono
come gli altri e mi rassicuro, non sono diverso dal branco, faccio esattamente
quello che fanno gli altri, sto con gli altri e fare quel che fan tutti
mi tranquillizza. Nel gregge marchiato, con qualcuno che mi dice ciò che devo
fare, sono al sicuro, basta copiare e non fare nessun passo falso.
È male? Dipende:
si tratta di vedere che intenzioni ha il pubblicitario di turno, se farci
cantare il tadoriamo, se farci sgolare col repertorio di vascorossi, se
guidarci alla conquista dell’Europa con la guerra-lampo, se farci esportare nel
mondo intero la nostra fede giusta che quella degli altri è sbagliata oppure venderci
soltanto delle innocue pentole nei pullman diretti a San Giovanni Rotondo.
«uomini e donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone»
RispondiEliminaLuciano Bianciardi, La vita agra