La letteratura, quando è riuscita a non cadere nella sfruttata retorica della civiltà contadina, ci consegna la narrazione della dignità a volte tragica delle classi subordinate, che in Basilicata, nel corso del ’900, si sono presentate sulla scena sociale con una condensata rapidità che forse resta unica nella storia dell’Italia del secolo scorso.
Diversamente che altrove, in Basilicata e segnatamente a Matera, non si è avuta la convivenza delle diverse categorie sociali in cui si ripartiscono le classi subordinate: non i contadini e accanto gli operai e accanto e più su gli artigiani e più su la borghesia e gli industriali e il clero eccetera, ma è accaduto invece, per grandi numeri, che le stesse persone da pastori o contadini siano divenuti impiegati, o da contadini e artigiani, siano divenuti migranti-operai nelle fabbriche dell’Italia settentrionale o all’estero: merce di scambio e mano d’opera da deportazione.
Poco dopo la guerra, non rimpianti padri costituenti giravano la nostra regione, paese per paese, nelle campagne casa per casa ad esortare alla emigrazione, a lasciare la Basilicata per fornire mano d’opera a buon mercato a una industria da boom economico settentrionale; non avete altra strada, dicevano: emigrare. La emigrazione delle braccia abili dal Sud quale irrinunciabile risorsa per la ripresa industriale del Nord Italia post-bellico, alla faccia della questione meridionale. Il prezzo umano ed economico di quelle scelte fu altissimo, tutto il Mezzogiorno lo sta ancora pagando e Matera non fa eccezione.
Fin dalla fine del ‘700 l’Europa e parte dell’Italia vivevano momenti di sviluppo industriale tali da far convivere il mondo contadino con quello industriale, mentre il terziario veniva delineando i propri ranghi negli apparati burocratici dei diversi Paesi europei, compresa l’Italia.
Nel mezzogiorno questa coesistenza economica e sociale dei settori primario e secondario – sia pure nella forma assistita della industrializzazione forzata -, arriva molto più tardi e a Matera solo a metà del secolo passato.
A Matera, cioè, non si ha coesistenza sociale fra i diversi settori delle classi subordinate in quanto sino alla metà del ‘900 l’economia e la cultura del posto erano più facilmente descrivibili secondo antichi modelli feudali che attraverso le moderne relazioni sociali che una democrazia presupporrebbe.
In tale contesto non solo era assente il processo dialettico fra classi sociali contrapposte – quella subalterna verso quella dominante, mancando affatto il concetto di classe nel miserevole bracciantato al servizio del latifondo – ma veniva a mancare anche la dialettica sociale fra diverse classi subalterne, quella contadina con quella operaia, indispensabile per la creazione di una identità sociale, per una identità di classe portatrice di costruttivi confronti e di crescita culturale, proprio nel senso della acquisizione della coscienza di sé che riviene dalla consapevolezza delle abilità di categoria e della consapevolezza del valore sociale ed economico di quelle abilità
In questo contesto, langue la cultura del “saper fare”, fondamento della economia di mercato.
A partire dalla metà del secolo scorso, con lo svuotamento dei Sassi, la condensata rapidità di sovrapposizione sociale in Matera è consistita sostanzialmente nel passaggio diretto di larga parte della popolazione materana da bracciante agricolo a manovale, da pastore-contadino a impiegato.
Il passaggio tra i diversi settori di classe subalterna (contadino-operaio-impiegato) è avvenuto qui senza un reale sviluppo economico e culturale della città: il terziario non nasce qui quale supporto logistico alla crescita dei settori primario e secondario, ma quale provvidenziale e clientelare passaggio di status: da contadino, il cittadino si ritrovava per grazia ricevuta a divenire impiegato negli uffici di cui il capoluogo si andava dotando, senza la necessaria maturazione sociale e culturale che altrove accompagnava, con passaggi a volte cruenti, la promozione sociale delle classi subordinate, in parallelo con lo sviluppo economico dei luoghi e senza la acquisizione di specifiche competenze professionali.
Il settore secondario dell’economia, l’industria, se mai si possa davvero parlare di industria del Materano, arriva dopo l’esplosione del terziario che ha determinato, fra l’altro, con il moltiplicarsi delle funzioni amministrative, l’inurbamento in Matera di impiegati provenienti dai paesi della provincia e da fuori regione, il che ha assai contribuito alla ulteriore “diluizione” del livello identitario di larga cittadinanza.
L’industria arriva a Matera solo con il distretto del salotto – considerando la triste esperienza della Val Basento non un processo industriale ma una spaventosa macchina di acquisto del consenso a spese e danno del debito pubblico, a pari della famigerata legge 219 per il terremoto del 1980 -, proprio quando l’industria molitoria legata alle attività agricole, pur resistendo nelle Puglie, a Matera spariva definitivamente.
Il settore industriale, tuttavia, qui rimane marginale e mai tale da comportare fenomeni culturali o da determinare la nascita di aggregazioni sociali tipiche della “classe operaia”. Né soggetti politico-sindacali, né altri fenomeni associativi, non nascono né bocciofile né dopolavori, né altre entità promanazione di una cultura operaia: Matera diviene una città con tracce decadenti del post-industriale (mobilità, cassa integrazione) senza aver vissuto una vera stagione industriale.
A Matera si ha mobilità sociale – all’interno delle classi subalterne – senza effettivo sviluppo economico della città: ciò determina la mancanza di quella maturazione culturale di classe che porta alla coscienza di sé, alla identità sociale e quindi alla espressione di leadership congrue e di reale rappresentanza popolare in alternativa, ove possibile, alle sempiterne rappresentanze degli interessi dei commercianti e dei costruttori edili.
La conseguenza dell’anomalo sviluppo economico è che non cresce più nelle nostre terre la cultura del “saper fare”, quale essenziale elemento propulsivo della promozione sociale propria e della crescita della città. Non è il “saper fare” che consente di ottenere un impiego, ma è la affiliazione a un potentato di tipo democristiano a risultare l’elemento promotivo.
La dialettica fra le diverse economie e diverse classi sociali che si sviluppò nelle regioni più evolute e industrializzate d’Italia, più vicine alle temperie europee (la rivoluzione industriale non nasceva in Italia), è invece mancata nel Mezzogiorno.
Qui per questi ritardi e per la vacanza di passaggi storici nello sviluppo dei territori, la convivenza sociale non ha assorbito a pieno le istanze della democrazia rappresentativa, in favore del permanere, invece, di relazioni che risentono dell’archetipica impalcatura – alla sostanza – di tipo feudale.
Impalcatura feudale che – quasi ordinamento atavico e reale connettivo sociale – è sopravvissuta a ogni susseguente passaggio di politiche meridionaliste (cassa Mezzogiorno, Anic, terremoto, obiettivo 1, fondi europei, fesr, ecc.) che, risentendo di schematismo ideologico da un lato e di rapace opportunismo dall’altro, non hanno per nulla inciso nella nascita di una classe imprenditoriale locale in grado di essere quella borghesia illuminata e intraprendente atta a determinare evoluzioni economiche e sociali indispensabili per la valorizzazione delle risorse locali.
Risulta quanto mai indispensabile e urgente una progettualità ragionata che consenta di non sprecare la ulteriore opportunità che può venire da MT2019. Tocca a chi gestirà MT2019 di sedare gli appetiti speculativi che già rumoreggiano, di calmierare le istanze di “distribuzione” delle risorse, di evitare che nel 2020, finito un luculliano banchetto per i soliti pochi intimi, la città torni a essere il luogo da cui si parte, trolley di cartone a rumoreggiar sull’impiantito, alla ricerca di un futuro. Altrove.
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