Per il momento qui si continua a essere solamente una lochescion per culture altrui, TV e spettacoli paratelevisivi, circensismi stranieri, storicismi hollywoodiani, narrazioni estranee, pornografie di trogloditismi inventati, di evangeli artificiosi, mitologie posticce ed inquinanti.
Su questi palchi sfilano in passerella forestieri di turno che vengono da lontano a ricordare la nostra vergogna del passato, sancita e raccontata da altri – sempre da altri – e che agitano nell’aria i lustrini di oggi, riparatorii, ma pur sempre appiccicatici da altri, da quelli dell’altrove, da quelli che appuntano medaglie d’onore a se stessi o sul petto di altri ancora, che come loro vengono dal nord, dalle terre dove noi abbiamo da andare, se vogliamo campare, dove noi abbiamo da emigrare (ancora!), completando la desertificazione di queste terre. Emigrare.
– Ti ho comprato il trolley nuovo, a mamma.
Basta con le valigie di cartone!
Emigrare ancora, dopo aver dato carne da macello per due guerre (d’altri) e per miniere e fabbriche (d’altri altrove); dopo una riforma agraria tardiva e clientelare; dopo le industrializzazioni farlocche che davano agli industriali del nord i miliardi di incentivo e a noi, accattoni professional, le briciole assistenziali-elettorali e i veleni per millanni; dopo un decennio di mobilimbottiti ripiombati nel sommerso, strozzati dall’isolamento geografico e dalla incapacità di innovare, dopo le lotterie clientelari dei posti negli Enti, l’agricoltura strozzata dalla grande distribuzione, il deserto dei servizi, gli schiavi nei campi dei caporali da assistere a spese della regione, il medioevo dei trasporti … dopo tutto ciò, ecco il vuoto della cultura che, senza giovani, nessuno può più innovare, la cultura bloccata sul peperone crusco, la cialledda e il “cuandro” dietro la tenda:
- Vedi dove si cacava, qui, tutti insieme?
- Uuuuh! Fsssffss! – sfrigola il turista.
- Cento lire, grazie…
Qui non c’è nulla, noi non esistiamo.
Vinti, come gli Indiani d’America. Da loro, in USA, sfila esibita con Buffalo Bill, la corona degli indios nativi con le penne d’aquila; qui da noi, nelle nostre grotte, si esibisce la sconfitta, la povertà antica e la miseria nuova, e si sfila a nostra volta nel gran circo per il pubblico pagante, per i nipoti dei conquistadores che vengono a vedere la vergogna che non si vergogna.
Qui – anche qui – ci sono (sempre) loro, seduti a tasche aperte, ancora una volta piombati qui a intascare – loro stessi – i fondi stanziati per questo strano Mezzogiorno orgoglioso della propria minorità, delle proprie camorre, delle astuzie traviate di quei viceré eletti inquisiti condannati prescritti e subito rieletti ed acclamati dai cortigiani che blandiscono la plebe speranzosa di nuove distribuzioni FESR, la nuova farina di cittadinanza, fra una festa e l’altra, che la forca è ormai virtuale.
Per compiacere gli occupanti, li guidiamo scodinzolando sui luoghi delle nostre miserie, tra le vie di ciò che loro sui loro libri hanno disegnato come unica-ultima-definitiva oleografica essenza lucana e noi abbiamo accettato come nostra identità spalmataci addosso come vernice, aderendo, almeno per finta, allo stereotipo coloniale del misero-ma-buono, erigendo musei in memoria dei colonizzatori e dei loro antropologi, missionari buoni, ma anche di quelli non tanto buoni come quelli del familismo amorale cui si dedicano templi recenti pur di inventarsi da campare, mungendo – si chiamano “progetti” – fondi da quella cornucopia che paga castra corrompe sterilizza e tacita.
- Saib, guardate come eravamo miseri! – vanno dicendo le guide alle mandrie di visitatori vomitati in piazza dai ventri fumanti dei bus.
- Ha ha!
- Vi piace Matera?
- Wanderfull !
- Certo, la nostra è una cultura subalterna, – si cita con malcelato orgoglio, la mano tesa alla monetina che arriva.
- Vi piace la nostra vergogna?
- Wow! Un selfie.
- Cento lire, grazie, avanti un altro.
- Venghino siori venghino a vedere come si viveva promiscui col mulo, sì, il mulo, e il maiale.
- Visto? Cento lire, grazie!
- Davvero? Molto pittoresco! – Rabbrividisce la turista in calzoncini.
Riscatto!
- Riscatto? Certo, ce l’abbiamo già. Ci abbiamo intitolato pure una strada, al riscatto. Eh!
- Una strada?
- Beh… una viuzza, un vico.
- E dove porta?
- Beh… veramente è una strada senza uscita.
- Ah, ecco.
Quante volte lo dobbiamo pagare questo riscatto?
E quando è che ci hanno sequestrati? Ce lo ricordiamo almeno?
E quando è che gli abbiamo consegnato chiavi in mano la nostra dignità?
Su YouTube si trova ancora un vecchio filmato Rai sulla Basilicata: fine anni 50, una donna col fazzoletto in testa torna sull’asino dalla campagna, Trufelli la apostrofa chiedendole di contribuire allo spettacolo e lei tace, lo ignora, non degna d’uno sguardo né lui né il cameraman, stringe le labbra e tira via, dignitosa, signorile, altera.
Dignità.
Oggi si fa la fila per giorni sperando di poter finalmente scoppiare a piangere in una telecamera in diretta su un qualche canale purchessia.
Dignità.
Dote antica e dismessa che fa rima con digiuno.
Venghino siori venghino, ecco la capitale della vergogna. Noi siam la canaglia pezzente – cantava un vecchio inno del lavoro –, ma a spezzar le servili catene, ormai non ci pensa più nessuno, qui, abbacinata contrada dai lustrini riparatorii, mentre partono i giovani, restano i vecchi e arrivano badanti, e trivelle, lavavetri ai semafori, schiavi nei campi e tante scorie.
Forza, in fila, intonate con me l’inno alla gioia, forza che ci sono le telecamere.
Dissolvenza…
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