Giravamo
armati sino ai denti, la fionda - a frècc -
alla cintola e na sacc a zammèl d lapìdd, il
passante dei pantaloni slabbrato a furia di portarci la spada di legno: erano tempi duri e bisognava stare all’erta. Le armi in casa non si potevano tenere e
dovevamo nasconderle nei fossi, negli scantinati, sotto le caforchie
di spine, così che il nemico non potesse trovarle e usarle contro di
noi. Peppino
Cantacesso detto Blek aveva
na cascitedd di legno color metallo nascosta sotto il
lettone della madre con una piccola serratura; la chiave lui la nascondeva
dietro il contatore grande dell’acqua nel portone. Là ci teneva le armi
segrete, la freccia grossa, con la forcella di ferro tondino arrotolato, e due potenti
nastri elastici presi da una camere d’aria non camilata uniti al
vertice dalla pezza, un ritaglio di cuoio per poggiare i proiettili, scelto con
cura durante le battute di caccia nei fossi e nelle discariche fra i resti di
scarpacce sconciate con le fauci spalancate e i chiodi aguzzi come zanne; le munizioni erano lapilli tondi e pesanti selezionati
nei fossi quando si andava per canne.
E
di canna erano le temibili lance indiane indispensabili nell’arsenale insieme
alle frecce indiane: una cordicella cioè
tendeva ad arco un raggio di ombrello scassato mentre un altro raggio, meticolosamente
strofinato sul tufo per appuntirlo, faceva da saetta e Aldino un giorno ci
stava lasciando un occhio durante un combattimento. L’arsenale si completava
con l’uso, per fortuna saltuario, di missili balistici il cui lancio era
subordinato all’approvvigionamento - furtivo e clandestino - di pietre di acetilene
da sotto le bancarelle dei nocellai. In
terra si scavava un canaletto che conduceva a una buca, nella buca si posizionava
un sassolino di acetilene e lo si copriva con rugginoso barattolo di conserve
raccattato in qualche mondezzaio; lo si compattava con un po’ di terra e si
lasciava correre dell’acqua lungo il canaletto. Appena si sentiva friggere il
gas sviluppato dalla pietra con l’acqua, con un zippo lungo acceso in
punta si dava fuoco al gas e il barattolo partiva in cielo con un botto, come
un missile vero a perdersi nell’infinito.
Le
battaglie erano frequenti, i tradtur
d’acchedavann u pozz non rispettavano i trattati e spesso la
parola passava alle armi, con fitte sassaiole da dietro l’avviamento e quando quelli
sconfinavano, dalle frecce si passava alle spade e al corpo a corpo, infuocando
di sudore e polvere la spianata dei Cappuccini.
Le
armi si riponevano quando veniva dichiarata a sfet,
la sfida. Partivano i reclutamenti e quando eravamo tutti presenti, con gli
occhi ridenti dicevamo: sem ricch!,
siamo ricchi. Ricchi di compagnia sicura. E forte.
La
sfida era una partita di calcio dalla durata indefinita che si svolgeva in uno
dei campetti più accreditati: dietro le scuole a ridosso della macchina del
catrame dimenticata là da chissà quale ditta, oppure mmenz o larghìr,
oppure, per le solennità, dietro a chiis Donvìt,
un fabbricato in tufo nato per uso industriale o scolastico, adattato a
parrocchia e dislocato nei pressi d u fuss u
macidd, il fossato che trasportava liquami dal mattatoio sin
fuori dell’abitato passando vicino al grigio pozzo chiuso che stava dove oggi
corre una pizzeria.
Le
sfide di calcio erano interminabili, le porte segnate da due sassi ai lati e
l’area di rigore col gesso di tufo strofinato a terra. Interminabili - a bordo
campo Peppin Grann trotterellava,
gli occhi a terra come un vero guardalinee - e a regole variabili, dalla punizion in offs,
al cambiafall
e all’esecrabile manimani preterintenzionale
certificato in area dal l’aggh vist hei
di almeno due giocatori; infinite galoppate dal dopopranzo sino a notte, sino a
quando qualche mamma non veniva scopa alla mano a recuperare l’ala sinistra o
il portiere o, peggio, il padrone del pallone. Infiniti scarti e puntazze, palestre di talenti veri: goleador, difensori
inviolabili, attaccanti temibili in azioni personali, simulatori professionisti
di fallo con dolore, svenimento o pianto alla bisogna; io ero fra quelli che avevna dè ntralc all’avversario, cioè un
brocco totale e la mia specialità erano i lisci carpiati con lancio della scarpa
o senza lancio della scarpa, seconda della resistenza dei lacci, tanto che l’orchestra Casadei si era
interessata alle mie doti e mi volevano in Romagna insieme al grande Saverio Mercadante
che cercava di essere più liscio di me e a volte ci riusciva pure.
A
scuola era d’obbligo il grembiule nero abbottonato dietro, come il prete al
contrario, il colletto bianco e il fiocco blu, ma, per fortuna, il risultato
uniforme non era mai raggiunto e non solo per le diverse sfumature di nero: chi
senza fiocco, chi col fiocco e senza colletto chi senza nulla affatto, chi con
lo scudetto e chi con i numeri romani cuciti in petto con un nastrino bianco. Tornava utile il grembiule all’uscita da
scuola per la cavalcata di Zorro: sfilate le maniche si girava al contrario e,
legato con l’ultimo bottone stretto alla gola, sventolava nella corsa come un
nero mantello al vento e già questo bastava per sentirselo sotto davvero, il
cavallo di Zorro.
In
classe eravamo stipati in una bella stanza che al pomeriggio si riempiva di
sole giallo, i primi banchi fin sotto la lavagna, tre file, gli ultimi
appiccicati agli attaccapanni. Il maestro metteva il cappello sulla cattedra e
ci parlava sempre con tono cordiale e ci guidava fra le pagine del libro nei
misteri della lettura. E quel libro, concepito e scritto in quel nord Italia
che aspettava o già aveva rapito molti dei nostri padri e zii e fratelli, di
misteri ne conteneva a iosa.
Il nostro
ottimo libro di letture a pagina 26 narrava del
bambino Salvatore che accompagnando la mamma
dal pizzicagnolo, voleva portare da solo, il bravo ometto, tutti i
pacchi della spesa. A ogni rilettura del
brano noi ci si voltava ridacchiando a guardare Salvatore
Pisani, ché era la prima volta che sul libro c’era un nome
nostro, dopo gli Arturo, i Fabio e gli Alessandro che sino ad allora avevamo
incontrato, personaggi estranei assoluti per noi sinanche nei nomi. Noi eravamo 42, più della metà si chiamava
Peppino, e fra gli altri nessun Riccardo e nessun Giulio. Trovare un Salvatore
nel libro era una svolta epocale e ci giravamo tutti a guardarlo quando il
lettore di turno lo nominava, Salvatore, e quello agitava su e giù la mano a
imbuto, ma era contento.
Una
bella lettura edificante che parlava di buste della spesa e di
generosità da ometti, rimase impressa nella memoria di tutta la compagnia
perché secondo l'antico metodo della decimazione, il maestro domandò a
caso tra le falangi che cosa significasse “pizzicagnolo”.
Lo
sguardo attonito degli interpellati a
turno esprimeva molto sforzo di caldaie e tanto smarrimento nell'attesa
della scarica di carcarozzi cotognetti e calcinculo che maturavano
in silenzio tra lavagna e crocefisso, anche perché -
fondamentalmente - ci mancava proprio il
concetto base dell'aver da trasportare voluminosi e pesanti sacchetti di generi
alimentari acquistati detti "spesa",
esperienza del tutto ignota alla platea.
Qualcuno bluffò
dicendo "non mi ricordo" e
venne fucilato nella schiena; quelli che la buttarono sull'etimologia
biascicando fesserie sui cagno‑lini
furono decapitati sommariamente e riabilitati solo nell'89 con
un Nobel per la pace secondo l'usanza antisovietica di quei giorni, altri
tacendo si accucciarono sotto il banco come colti da improvvido torpore.
Nessuno sapeva cosa diavolo fosse questo fetente d'un
pizzicagnolo.
Poi
il maestro, smontato che ebbe il patibolo e sfilatosi il cappuccio nero dalla
testa, ce lo spiegò che il pizzicagnolo è una specie di salumiere che vende
cose da mangiare come le scatolette della carne in conserva, le delicatessen,
le salsicce e, a volte, anche il pane.
Allora capimmo che quando la mamma, ci mandava a
prendere un‑cucchiaio-di‑conserva‑uno e quattro quinti di minz-zèt
da Niculèn,
ci stava mandando dal pizzicagnolo e che quindi questo pizzicagnolo altri non
era che Niculèn Bòffl.
Ma perché non lo scrivevano sul libro? Evidentemente
quello che scriveva il libro doveva essere un ricco del Nord: lì, Niculèn
Bòffl, si chiama Pizzicagnolo.
A
questi compagni, ai quali non ho mai smesso di pensare con nostalgia e con
allegria, qualche anno fa dedicai la copertina e qualche brano di un libro di
racconti “Nuove leggende lucane” che riproduce l’unica fotografia di gruppo
della nostra prima elementare scattata sulle scale dell’allora chiesa di Don
Vito. Piccoli volti tesi in punta di piedi a guardare l’obiettivo in uno
splendido giorno di scuola con uscita, partita di calcio e fotografia: il
massimo.
A
distanza di quasi mezzo secolo dalla fine delle elementari, lo scorso agosto,
Ignazio Romaniello e Luca e Filippo Pisani che stavano a Irsina per le ferie si fecero venire in mente di
organizzare un incontro con i compagni di scuola delle elementari e col
passaparola, come ai bei tempi, si mise insieme una squadretta di otto reduci e
un affettuoso esterno, l’amico Peppino Coniglio. E così la sera del 17 agosto
ci siamo ritrovati in pizzeria Michele
Vomero da Bari, Peppino Cantacesso,
Filippo Pisani e il suo gemello Luca
Pisani, entrambi da Pisa, Peppino
Colasuonno da Parma, Ignazio Romaniello da Sassuolo, Peppino Masiello da Torino e io da Matera; Gaetano Amenta che sta a Irsina non riuscì a raggiungerci mentre Mario Altacera si collegò da Bari via WhatsApp.
La
commozione era palpabile. A parte Peppino Blek che incontro spesso a Irsina, avevo visto Colasuonno una sola volta trenta anni fa,
Michele e Mario nel ’76 all’università, e tutti gli altri non li vedevo da
quasi 50 anni. Rivederne i volti e riconoscerne pian piano i lineamenti, il
modo di ridere, l’allegria prudente di alcuni e scoppiettante di altri, mi dava
una emozione forte e intensa in un intrigante viaggio indietro nel tempo.
Scrutavo i loro volti sessantenni e vedevo distintamente le faccine dei bambini
che eravamo e che per una sera si rincontravano pronti a una qualche battaglia,
a una qualche esplorazione notturna, a una avvincente avventura. Michele Vomero
aveva portato con sé le foto scolastiche e così ci lanciammo nella esplorazione
delle geografie migratorie dell’Italia disunita che ci divise: dove sta adesso?
Gaetano Porro, Salvatore
Pisani, Giuseppe Orlandi, Michele Palumbo, Tonino Cancellara e Ignazio
Romaniello stanno a Sassuolo. E Giacomino Ziccardi dove vive?
Decclesis, Peppino Masiello, Tommaso
Abbruzzese e Saverio Francabandiera abitano a Torino, mentre Tarantino sta
ad Irsina e Nicola Spiniello abita a Savignano di Bologna; Peppino
D'Antonio prima stava a Marconia e ora forse in Sardegna. E Michelino
Francabandiera dov’è?
E Palumbo? Forse è a Bologna,
Minguccio Mannarella sta a Roma, e Michele Vomero e Mario Altacera stanno a Bari.
Giuseppe Gagliardi sta a Varese, sì, si vede su Facebook, ma non ci sono
recapiti telefonici. E Giovanni Maci? Su FaceBook ce ne sono cento.
E Grisio, dove sarà? Schinco e
Vincenzo Trabace saranno a Milano e Nicola Ferri a Matera; Sardone sta a
Irsina e i gemelli Pisani Luchino e Filippo - manco a dirlo - stanno a Pisa: Giuseppe
Colasuonno a Parma, Peppino Santomauro a Irsina, Rizzi ci guarda dall'alto, dice Minguccio.
Gaetano Amenta e Peppino Cantacesso stanno a Irsina. E Trabace ? E Spoto? e Francini? e Silvestri?
E
così abbiamo deciso di metterci all’opera per rintracciare tutti gli altri
compagni di quegli anni, 1962-1967, e di organizzare un grande incontro di
tutti i compagni per l,’estate 2017, a 50 anni dalla fine delle elementari. Vogliamo
passare tutti insieme una giornata intera di ricordi e di allegria e così potremo
dire, come un tempo, sentendoci di nuovo tutti vicini, gli occhi ridenti: sem ricch!!
(w/cody)*
che bella squdra di ragazzi!
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