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domenica 29 luglio 2012

locali pubblici





Sotto un sole da fonderia lo sterzo rilasciava goccioloni di gomma fusa sulle mani. Per sete e per fame e per le copiose sudate parcheggiai al sole ed entrai in una trattoria.
Le correnti d’aria rinfrescavano il locale, sei tavolini affollati e un televisore a volume sparato sulla pubblicità del Banale 5: ogni venti minuti di pubblicità un’improbabile vegliarda bisbigliava meravigliose (beautiful) frasi di passione a uomini diversi. Tre minuti di passioni e venti di pubblicità. A tutto volume.
Per chiedere un’insalata e una bistecca dovetti scrivere che la cameriera non sentiva.
Al tavolo accanto gli avventori vociavano, uno strillava che lo scudetto il Milan se l’era comprato e gli altri gli davano sulla voce ripetendogli che gli Interisti sono come il dentifricio: per-denti. L’interista scostò la sedia e poggiò il gomito sul mio schienale, puntandomi la punta dell’ulna nella schiena e dovetti spostare la sedia per non averlo fra le costole.
Mi alzai e chiesi dove fosse il bagno. La maniglia era unta e accesi la luce con un dito dalla parte dell’unghia. I precedenti visitatori avevano combinato, secondo il noto copione, l’ultima schifezza. I veri uomini fanno così nei locali pubblici: il primo entra e perde due gocce sul cerchio e sulla tazza, il secondo la fa quasi tutta sul cerchio e sulla mattonella, il terzo per non metterci i piedi la molla interamente in terra. Dal quarto in poi ci vuole il consorzio di bonifica delle paludi pontine. Rinunciai e mi stropicciai le mani coi miei fazzolettini.
La bistecca era bruciata, l’insalata scondita. Sbocconcellai del pane comprato alla sovrintendenza dei beni archeologici.
Un telefonino si illuminò sul tavolo di fronte e cominciò a ballare il can-can a volume sempre più alto. I commensali erano ammirati dalla suoneria del loro amico, il quale aprì la comunicazione e a voce sempre più alta prese a invocare il suo tesoro, sì cara che ti voglio bene e stasera te lo dimostro. Il signore calvo all’altro tavolo non potè sopportare l’oltraggio che  qualcuno parlasse così forte al telefono e gliela fece vedere: compose un numero e cominciò a urlare, se non mi paghi quella fattura non te ne porto merce, e sei parolacce di seguito. E te lo dico dopo cosa puoi farne della bolla d’accompagno. Ebbi un capogiro.
Al tavolo di destra avevano finito e la signora col capo all’indietro tentava di raggiungere con lo stecchino un molare comparsole di recente fra le corde vocali; le materie estratte le stropicciava sul tovagliolo accanto al piatto. Lui con lo stecchino western a passeggio fra le gengive chiedeva il conto. Al tavolo in fondo, incuranti del palinsesto raccontavano forse barzellette e ridevano, in coro, a scatti, uno batteva i piedi in terra e andava in apnea, un altro sbatteva la mano sul tavolo e sghignazzava paonazzo, un altro prese a lanciare molliche in faccia al dirimpettaio. E ridevano. Chiesi di pagare il conto: il caldo là fuori  in fondo non è poi tanto male. I tifosi erano usciti e la cameriera sparecchiava sgomitandomi sotto il naso piatti e posate. In attesa del foglietto di carta a quadretti su cui avrei letto l’importo da pagare, mi accesi una emmeesse. Dal fondo del banco si staccò una figura che sino ad allora non avevo notato, mi si parò davanti e mi intimò di spegnere subito la sigaretta. Perché? Domandai stupito.
E lui rispose: Perché disturba i clienti. 



 tratto da "Pistacchi & Frottole"

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