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domenica 17 novembre 2019

contro la retorica dei 50 anni di Internet - di Francesco Salerno


La tecnologia e i sistemi digitali pervadono sempre di più ogni aspetto della vita quotidiana, un processo che va di pari passo con la narrazione entusiastica della super informatizzazione da parte dei media e dalla politica. Spuntano ovunque festival ed eventi più o meno grandi dedicati all'informatica e a internet e con il secondo governo Conte abbiamo nuovamente il ministero per l'innovazione tecnologica e la digitalizzazione che era stato soppresso nel 2012.
Tutta la retorica sul miglioramento che l'informatica apporta alle nostre esistenze deve però spingerci a indagare sul prezzo che questo comporta e a domandarci chi paga il conto dei nostri agi. Al di là delle ricadute sociali che comporta l'alienazione dai rapporti reali di giovani e meno giovani impegnati molte ore al giorno con smartphone e pc, esistono anche altre ragioni che dimostrano che lo sviluppo tecnologico ha ben poco di sostenibile per milioni di esseri umani.
Chiariamo subito un punto: non si tratta di essere contrari alla modernizzazione e allo sviluppo tecnologico, è piuttosto un atto di accusa al sistema economico e sociale all'interno del quale avvengono questi processi. Con una lucida analisi marxista alcuni militanti del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL), proprio in occasione dell'ultimo internet festival tenutosi a Pisa a ottobre, hanno pubblicato un documento fortemente critico contro un sistema che grava sull'ambiente e sulle vite di numerosi lavoratori di alcuni Paesi dell'Africa e del Sud-Est asiatico.

I dati raccolti nel documento fanno riferimento a una ricerca svolta da Timothy Longman, professore associato all’Università di Boston ed ex osservatore per i diritti umani per conto del Dipartimento di Stato statunitense nel Congo orientale e Julie Kingler, anch'essa professoressa all'Università di Boston. Longman e Kingler denunciano le condizioni di schiavitù in cui lavorano in Congo gli addetti all'estrazione del coltan, minerale utilizzato per la fabbricazione di computer e smartphone in quanto altamente conduttore. Si parla chiaramente di condizione di schiavitù con esseri umani ostaggio di organizzazioni paramilitari e costretti a lavorare senza sosta per turni infiniti che arrivano a dieci ore al giorno. Tutta la dotazione in mano agli estrattori consiste in una pala e non esiste alcuna misura di sicurezza, inoltre molti scavano scalzi e a mani nude. Non è raro incontrare in questo contesto anche donne impiegate nell'estrazione e che non possono astenersi dal lavoro nemmeno nel periodo della gravidanza: la pena per essersi assentati dal lavoro potrebbe consistere in pestaggi o stupri.
La seconda parte del documento redatto dal PCL riguarda la compagnia Foxconn.  Si tratta di una delle maggiori fabbriche di apparecchiature informatiche al mondo i cui lussuosi uffici amministrativi si trovano a Tucheng, in Taiwan, ma nei suoi impianti di produzione le condizioni di lavoro sono pessime: le leggi della Repubblica Popolare Cinese prevedono che un lavoratore non possa cumulare più di 36 ore di turni aggiuntivi al mese ma sono sistematicamente violate e molti ne svolgono fino a 100, con tanti saluti alle 8 ore di sonno necessarie agli esseri umani: un pluslavoro di 64 ore comporta che, in una singola giornata, un lavoratore si trovi a dover lavorare dalle quattro del mattino fino a notte fonda. Anche in questo caso ai lavoratori non è fornito l’abbigliamento produttivo adeguato al loro lavoro. Spesso sono trattenuti in fabbrica nottetempo per presenziare a riunioni che poi non figurano nella loro paga mensile e sono tenuti a fare il turno di notte anche per un mese di fila per un modesto premio salariale ma il riposo durante il giorno è poco, in dormitori in cui sono tenute a dormire fino a 10 persone tutte insieme. Sono in tanti a non reggere questo sfruttamento violento e disumano e a togliersi la vita, per lo più giovani dai 18 ai 24 anni di età. A proposito dell'età va ricordato come per risparmiare sugli stipendi per i lavoratori, la Foxconn ha pensato bene di far lavorare alla catena anche dei minorenni, soprattutto liceali.
In questo contesto si inseriscono anche le organzzazioni criminali, a cominciare dalla camorra, che spesso coordinano le importazioni di generi di consumo dall'Asia, come più volte spiegato dallo scrittore Roberto Saviano.

Un articolo di David Sarno sul Los Angeles Times riporta come anche marchi come Apple, Nintendo, Dell, Hewlett-Packard, Sony e Amazon collaborino con la Foxconn occultando con una maschera di glamour le violenze sui lavoratori.
Questi sono i modi di produzione dello “sviluppo sostenibile” sbandierato ai quattro venti dai politici dei partiti borghesi, e dunque questa è la base materiale della “competitività” alla base della “crescita” che comporterebbe “sviluppo”. La menzognera retorica liberista è smascherata dalla scienza marxista, che rivela che a crescere e svilupparsi sono solo i capitali dei padroni, che competono con la dignità e la vita degli operai.
Una questione che tra l'altro è strettamente connessa anche al fenomeno migratorio. Oltre ai conflitti armati infatti, anche le devastazioni ambientali provocate dalle multinazionali e lo sfruttamento disumano perpetrato ai danni di milioni di lavoratori contribuiscono a spingere molte persone a lasciare il proprio Paese con la speranza di trovare una vita migliore altrove. Una riflessione che però non trova spazio nel dibattito politico borghese, dove nella contrapposizione tra “porti aperti” e “porti chiusi”, non trova spazio il paradosso capitalista che è all'origine di tutto il problema.

LINK UTILI E FONTI: “Conflict and Coltan in Eastern Congo”, in https://www.youtube.com/watch?v=F5VZtJDYWNM (Url consultata il 24/10/19).
Gurman, Mark, “Apple, Foxconn Broke a Chinese Labor Law for iPhone Production”, in https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-09-09/apple-foxconn-broke-a-chinese-labor-law-for-iphone-production (Url consultata il 24/10/19).
“Inside Foxconn: interviews with factory workers making iPhones and other Apple products”, in https://www.youtube.com/watch?v=-kM58QeNd6E (Url consultata il 24/10/19).
Sarno, David, “Firm shaken by suicides”, in https://www.latimes.com/archives/la-xpm-2010-may-26-la-fg-china-suicides-20100526-story.html (Url consultata il 24/10/19).
George, Richard, “iPhone, Wii U Manufacturer Admits to Employing Children”, in https://www.ign.com/articles/2012/10/18/iphone-wii-u-manufacturer-admits-to-employing-children (Url consultata il 24/10/19).

(Francesco Salerno)







venerdì 28 settembre 2018

cultura, trincea contro la barbarie


Non ho mai conosciuto mio nonno paterno, era nato negli anni 80 dell’800. Lasciò qualche pezzo di sé in una trincea della prima guerra e tornò a casa. Se ne andò qualche anno dopo, in silenzio. Mio padre era un ragazzo allora.
Mio padre mi raccontava spesso di lui, del suo silenzio, della sua austerità, dei suoi stringati racconti, di quella volta che aveva detto:

 “A Gorizia ho visto un teatro: era bello.”





Gorizia. Fronte di guerra dove:

sotto l’acqua che cadeva a rovesci/
 grandinavano le palle nemiche/
(…)
Oh Gorizia, tu sei maledetta /
per ogni cuore che sente coscienza/
dolorosa ci fu la partenza/
e il ritorno per molti non fu.”

A scuola ci dovrebbero andare tutti, diceva mio nonno, come in un sogno di socialista ingenuo: e tutti saper leggere e scrivere e capire la filosofia, l’arte, la storia, la vita dell’umanità, i pensieri della gente. E capire il teatro, il dramma e la commedia. E dopo, ognuno farà il suo mestiere, chi il medico, chi l’ingegnere, chi il calzolaio, chi il contadino. Ma alla sera, dopo il lavoro, il dottore e il calzolaio, che hanno fatto le stesse scuole, si trovano sulla piazza e parlano di teatro e di arte e di filosofia.
Perché tutti possiamo capire e apprezzare le cose belle della vita.
Così diceva mio nonno: anche se di diversa professioni e differente ricchezza, la gente deve essere unita dalla cultura, dai saperi.

A scuola oggi ci vanno tutti, il sogno di mio nonno si è avverato, ma in un modo distorto.
Le persone oggi si incontrano e, qualunque mestiere facciano, parlano fra loro, sì, ma di gol, di campionati, di vestiti e di automobili: di merci oppure di soldi da vincere alle lotterie per poter comprare più merci.

Però, quando penso che un noto ex sindacalista, Cofferati, è uno dei maggiori esperti di opera lirica in Europa, allora credo che mio nonno avesse ragione nel pensare che per esercitare al meglio non solo una professione ma anche solo il “mestiere di essere umano” occorra la cultura, occorra essere immersi in un ambiente che offra stimoli alla creatività delle persone, attraverso la scoperta o la riscoperta delle parole, dei pensieri, delle pulsioni profonde, delle passioni, dei ritmi del corpo e della voce dell’immaginazione.
Proprio nel senso che l’esercizio quotidiano della conoscenza e della scoperta dei territori interiori, oltre che di quelli estesi nel mondo, possa essere l’unica trincea contro la barbarie.

Per decenni, per tenere lontani i ragazzi dalla strada, dalle devianze, per la loro educazione sentimentale e civile e culturale non si è puntato sul teatro, sui centri di lettura, sulle associazioni culturali, sulle biblioteche. Si è puntato piuttosto sui palazzetti dello sport, sugli stadi megagalattici, sulle aggregazioni di giovani in tifoserie pronte a trasformarsi in corpi elettorali compatti e lasciando che in alternativa i ragazzi avessero solo discoteche e angolini bui.

C’è un insostenibile senso di vuoto in una società senza cultura che ha affidato la formazione delle giovani generazioni alla TV e alle compagnie dei telefoni e a chi vuole solo vendere prodotti.
Eppure. Eppure.
Anni fa in una scuola elementare tenni un laboratorio di scrittura creativa collegato a esperienze teatrali per i ragazzi. A fine laboratorio, uno di loro, un bambino di 10 anni, mi disse: 
il teatro è un posto dove non c’è niente, ma ci può succedere di tutto”.
Io pensai a mio nonno e fui felice anche per lui.


domenica 8 luglio 2018

Gianni Maragno commenta una pagina di Pietro Amato Perretta

  L’indipendenza della magistratura da altre forme di potere, in generale, e dall’esecutivo, in particolare, è stata frequentemente sottoposta nell’Italia democratica a forti tensioni e accesi contrasti, poi, di massima, rientrati con opportuni ed equilibrati chiarimenti.
      È oggetto di larga attenzione proprio in questi giorni, sulla stampa e sui media, l’eccessiva e discutibile acredine con la quale viene proposta la infervorata polemica che vede coinvolti, da una parte, i magistrati “con le loro associazioni di categoria” a difesa dell’autonomia in nome della giustizia e della libertà, e, dall’altra, esponenti di gruppi parlamentari e di rappresentanti di alte cariche dello Stato, forti “a volte anche delle volontà popolari”, spesso intransigenti e mal disposti nel valutare comportamenti e strategie politiche confliggenti con gli ordinamenti espressi dal potere legislativo e tutelati dalla Costituzione, che l’apparato giudiziario è tenuto a far rispettare.
      In questa opposizione di poteri, indebolire una parte a vantaggio dell’altra comporta scompensi difficili da recuperare nel delicato sistema di equilibri previsti dalla Costituzione, con inevitabili ripercussioni sulla qualità ed integrità di quanti sono chiamati a garantire un’equa distribuzione delle risorse dello Stato ed un sano e corretto svolgimento delle mansioni quotidiane di ogni cittadino. Spesso, poi, i comportamenti dei contendenti finiscono per essere inutilmente strumentalizzati.
     Seppure in una diversa temperie politica e ideologica, la Basilicata si dimostra terra contrassegnata nel passato da solido impegno civile e irremovibile fedeltà ai principi di giustizia e democrazia.
     La storia ci ha consegnato con i suoi intangibili documenti i rischi, l’oppressione, le drammatiche conseguenze del Fascismo in Italia. La dittatura scoraggiò qualsiasi forma di dissenso alle sue imposizioni, ma qualche magistrato, nostro corregionale, tenne la schiena dritta e denunciò con grande coraggio malcostume, corruttela, inadempienze ed incapacità del potere.
     È opportuno ed esplicativo riprendere un articolo del periodico “La Separazione” del 23 giugno 1923, di seguito riportato, nel quale Pier Amato Perretta, magistrato insigne, nativo di Laurenzana, esprimeva il suo punto di vista sul regime fascista e riassumeva il ruolo e la figura del Duce con un appellativo, decisamente inconsueto per quel personaggio e in quegli anni:

                                    Il viandante smarrito.

[…] Nessuno vuole preoccuparsi. Tutti intendono avere almeno l’aria di divertirsi, come gli stenterelli che portano a passeggio il loro appetito. Perciò la nostra voce è molesta. Diciamo nettamente che si sta male e che presto si starà peggio, mentre gli scienziati ufficiali si infervorano reciprocamente a trovare nuovi indici del benessere economico.  Intanto il Capo del Governo preferisce parlare di Lorenzino dè Medici, anziché della lira perché questa - se pure sarà coniata col fascio littorio – sarà sempre riluttante ai suoi ordini e più docile verso il dollaro e la sterlina. La volontà di Benito Mussolini, cadute le illusioni taumaturghiche, sfrondata dei ricordi demagocici sull’importanza del castigo e del premio, si va esaurendo nelle gite, nelle cerimonie e nei vaticini. Egli sembra un viandante smarrito che parli con se stesso a voce alta, per avere il coraggio di proseguire. Non ha trovato nel potere quello che non trovò nel suo desiderio di ribellione. Comprende la sua impotenza, ma si ostina ad esaltare l’opera sua e dei suoi seguaci, come se dal semplice ordine di polizia potesse scaturire l’ordine economico e finanziario. Sulla crescente miseria italiana si leva qua e la il rumore dei banchetti di mille coperti, in onore di qualche avventuriero, quasi a celebrare il preferito lavoro delle ganasce. Gli innocenti plotoni dei balilla sgambettano perfino nelle feste dello Statuto e si mischiano agli uomini d’arme, come nelle orde barbariche; le mamme sorridono e temono solo di vederli tornare con i calzoncini pieni. La lesina cincischia le magre carni dei servizi pubblici. La popolazione di tutto il Paese aumenta ogni anno di mezzo milione, mentre si ignora la quota di capitalizzazione. Nessuno si azzarda a fare il calcolo della ricchezza nazionale per metterla a confronto degli 88 miliardi di debito pubblico. L’impossibilità di emigrare aggrava lo squilibrio del Mezzogiorno ed anche il Settentrione comincia ad allarmarsi del grave pericolo. La Confederazione dell’industriastudia, ma vuole prima “individuare le cause che ostacolano lo sviluppo industriale in quelle regioni”, cioè confessa di ignorare quale sia il rimedio. Prima della guerra l’impiego dei capitali stranieri, specie tedeschi aveva potentemente contribuito ad irrobustire la nostra economia. Oggi, nonostante le leggi allettatrici, dobbiamo provvedere più direttamente ai casi nostri, e non è facile impresa, pur avendo fatto il bel gesto di autorizzare la sottoscrizione in Italia di un prestito di duecento milioni all’Austria. È doveroso constatare, senza alcuna ostilità, che finora il Capo del Governo non ha avuto alcuna di queste intuizioni economiche che servano a valutare un uomo di Stato.  Si sono fatti da alcuni nei confronti napoleonici, così come in Francia gli strilloni del re adoperavano l’olio di ricino ed il catrame. Ma bisogna ricordarsi che a Napoleone I non sfuggì mai l’importanza dei fatti economici e se ne occupò spesso personalmente, senza delegare il compito ad un qualsiasi Rocco o ad un bravo De Stefani. Così volle ed attuò, mentre era primo console, la Banca di Francia e comprese la possibilità di fare di Anversa un “entrepot” dell’Europa occidentale, incoraggiando i primi lavori per migliorare il porto, approfondire i canali e sviluppare i magazzini. Sinora il fascismo si può paragonare ad un servizio di carabinieri e di militi sulla piazza di un mercato. È necessario non solo che i militi non vengano alle mani fra loro, ma che il mercato si arricchisca di merci, si animi di contraenti; altrimenti a sorvegliare il vuoto ed il silenzio, basta il custode dei cimiteri a caroviveri ridotto. Occorre meditare ed agire, spronare tutta la volontà a ricercare le cause del benessere del popolo e non accrescere il disagio con una numerosa oligarchia di affamati. […]


     Coinvolge e si definisce come modello educativo il comportamento del giudice di Laurenzana, sia per i privati cittadini che per coloro che sono gravati da impegno istituzionale o svolgono un ruolo ufficiale. Sotto l’aspetto giudiziale, si sottolinea la funzione inalienabile della magistratura per individuare colpe e responsabilità e ristabilire una corretta condizione. Ma rifulge la qualità civile della oggettività dei fatti e dell’equilibrio del loro inquadramento, non avulso, per competenza di conoscenze e capacità di esprimerle, dal contesto di riferimento: economia, politica, storia, tutto concorre alla formulazione del giudizio, che si mostra attento e, quantomeno, rispettoso anche nei confronti del colpevole, ritagliando una definizione che descrive l’incombenza degli eventi sul Dittatore e la sua inabilità nel poterli e saperli affrontare.
     A seguito di questo duro intervento contro il Duce, il Guardiasigilli Rocco dispose il trasferimento di Perretta; fu la prima di una lunga serie di rappresaglie, alle quali reagì con coraggio fino all’ultimo istante di vita.
      La città di Como, dove il Magistrato Pier Amato Perretta trascorse gran parte della sua esistenza, con riconoscenza ha dedicato una piazza e intitolato il Museo della Resistenza a lui “un uono in difesa della libertà”

venerdì 27 aprile 2018

Gianni Maragno ricorda il magistrato partigiano lucano Pier Amato Perretta.

Finalmente si parla di un glorioso figlio della Basilicata, Pietro Amato Perretta, libertario coerente e coraggioso magistrato che non volle mai piegarsi al fascismo del quale invece denunciò pubblicamente la violenza, la corruzione, la responsabilità immensa nel declinoi del Paese. Perseguitato dal regime e dai suoi servi, fu infine partigiano e martire della Resistenza.
Si deve allo studioso Gianni Maragno, scrittore, autore fra l'altro del noto libro "Il treno del bel canto: il disastro di Grassano del 1888" la divulgazione in Basilicata della storia del magistrato partigiano di origini lucane Pietro Amato Perretta; Maragno ha tenuto incontri e conferenze sul tema in Basilicata e a Como, città che ospitò per decenni Perretta e che gli ha intitolato una piazza del centro storico.

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Per la prima volta, quest'oggi, nella Basilicata si è provveduto ad onorare Pietro Amato Perretta, alias Pier Amato, il motivo non è dovuto alla mancanza di memoria ma è da addebitarsi ad ignoranza, in quanto Pier Amato nato a Laurenzana il 24 febbraio 1885 ben presto dovette spostarsi fuori regione e con il tempo si è cancellato persino il di lui ricordo.


La sua famiglia aveva contribuito non poco alla fase risorgimentale, il padre prese parte alla insurrezione di Potenza del 1860 ed anche la madre proveniva da una famiglia molto attiva nella Carboneria, i cui componenti avevano subito carcere e persecuzioni.
Pier Amato nel 1906 a soli 21 anni si laureò a Napoli in Giurisprudenza, con il massimo dei voti e la lode, per poi vincere secondo in Italia il concorso per la magistratura ed essere destinato come uditore giudiziario presso la Corte d’appello di Napoli e successivamente alla Procura di Napoli come giudice aggiunto.
Nel 1910 sposa Gemma De Feo che gli regalerà la gioia di quattro figli: Lucio, Fortunato, Vittoria e Giusto.
Pier Amato si impegnò ben presto in favore della tutela dei diritti individuali, con un’impostazione culturale moderna e progressista; tra i suoi primissimi scritti le inadeguate tabelle ufficiali sull’alimentazione dei carcerati ed il regime detentivo della segregazione. 

Il giovane Pier Amato maturò una concezione propria della libertà, come un giusto equilibrio tra fondamenti individualistici e solidaristici e condusse la propria esistenza in piena coerenza con tali concetti, anche quando ciò determinò conflitti con il pensiero dominante, fino a divenire egli stesso “Pier Amato” un baluardo di libertà ai tempi del Regime.
La sua strenua difesa in favore delle libertà lo portò di frequente a criticare l’operato del Governo soprattutto in tema di indipendenza e riforma della magistratura e sui temi della giustizia, impegno che dovette costargli molto caro tanto che dover subire un allontanamento da Locorotondo dove ricopriva il ruolo di Pretore, alla volta di Conselve e successivamente di Como, ma nonostante tutto il nostro rispondeva colpo su colpo alla complessa macchina governativa che non gradiva nessun tipo di ingerenza e contestava per illegittimi e inappropriati i comportamenti del giovane. Con molto candore Pier Amato faceva presente che la propria attività intellettuale, non violava alcun diritto e non mancava alcun dovere, svolta fuori delle proprie funzioni rientrava nei limiti di libertà di pensiero e di stampa consentiti dalla legge e dai regolamenti.
Il prestigio della Magistratura ed il sistema di equilibrio tra i poteri dello Stato, furono gli argomenti che Pier Amato espose nell’intervento al II Congresso della Magistratura tenutosi a Milano nel 1913, e che gli rese la notorietà di giovane capace e agguerrito e spinsero un altro lucano Vincenzo Torraca, direttore della rivista “La Magistratura” ad aprirgli le porte della redazione del giornale dei magistrati. Pier Amato accettò ed intraprese la collaborazione con entusiasmo.
Subito dopo il Congresso, Perretta venne eletto nel Consiglio centrale dell’Associazione generale magistrati italiani con il massimo dei voti dello scrutinio.
Partito in guerra il 1915 con il grado di sergente, rimase nei reparti combattenti fino al 1917 quando venne promosso tenente dei bersaglieri e destinato al Tribunale di guerra del XVI° corpo di armata, operante in Albania con sede in Valona, divenne Capitano nel 1918 e da maggio ad ottobre del 1919 operò presso il Tribunale militare marittimo di Napoli. 
Nel febbraio del 1921 Perretta venne promosso a giudice e assegnato al tribunale di Como. Nella città lariana avviò collaborazioni giornalistiche con testate di area antifascista quali “Volontà”, che pubblicava scritti di Croce, Gobetti, Parri, Amendola, Calamandrei.

La sua libertà non ammetteva condizionamento alcuno e nei suoi scritti avanzava critiche severe sulla politica economica del governo Mussolini. Al Dittatore italiano era dedicato l’articolo “Il viandante smarrito”, nel quale lo si accomunava insieme al partito fascista, al ministro Rocco e alla Confederazione degli industriali nelle responsabilità per un paese che stava sprofondando in una deriva economica ed istituzionale irreversibile.
La risposta veemente del Ministro Rocco non si fece attendere e venne emesso un provvedimento per la rimozione del Magistrato da Como per altra sede. Perretta venne destinato (nonostante il criterio di inamovibilità dei magistrati, che poteva essere attuato esclusivamente nei casi di incompatibilità o menomato prestigio) a Lanciano. Il Perretta contestò la decisione del Ministro da un punto di vista formale e sostanziale, in quanto arbitrario e rifiutò di raggiungere la sede di destinazione, rimanendo a Como. Ma l’azione governativa non incontrava alcuna resistenza nell’addomesticato Consiglio superiore della magistratura che confermava il provvedimento, ma Perretta non accolse passivamente la decisione ed inoltrò ricorso al Re, con il quale specificava che in caso di conferma della punizione si sarebbe lasciato decadere da magistrato, e al contempo diffidava il Guardiasigilli Rocco.
Nonostante la situazione difficilissima, Pier Amato non si astenne nemmeno in questi frangenti nel ribadire alle autorità governative la sua indipendenza intellettuale e politica dichiarando: non sono fascista, né filofascista, e non vi è alcuna probabilità che lo diventi fino a quando durerà la lode e la tutela della violenza, fino a quando i nati della stessa terra si chiameranno “dominati” e “dominatori” e non già soltanto “fratelli”.
Fuori dalla magistratura Perretta si iscrisse all’albo degli avvocati di Como, esercitando nello studio del collega onorevole Angelo Noseda già Sindaco socialista di Como. Qui subiva ad opera fascista una intimidazione con messa a soqquadro dei locali e l’arresto con detenzione di cinque giorni, prima di essere nuovamente incarcerato e condotto nelle carceri di Potenza insieme a Don Primo Moiana.
Seguiva nel gennaio del 1926 un provvedimento della commissione reale degli avvocati di Como che con decreto sospendeva il Perretta dall’albo, mentre perveniva il provvedimento di confino di polizia per la durata di due anni ed il Prefetto Maggioni di Como, in considerazione delle misere condizioni economiche della famiglia Perretta propose Laurenzana come dimora. Pier Amato trascorse un mese nella sua Laurenzana, prima che il ricorso dallo stesso avanzato in quanto padre di 4 figli in condizioni di forte disagio economico venisse accettato, tramutando i 2 anni di confino a Laurenzana in 3 anni di domicilio coatto a Como.
Gli anni ’30 furono molto difficili per Pier Amato che dovette subire molte violenze ed intimidazioni per le quali denunciò per abuso di potere il questore di Como. Gli anni ’40 furono funesti per la famiglia Perretta, il figlio Giusto venne fatto prigioniero dagli inglesi a Sidi el Barrani e per lunghi mesi i genitori non ricevettero sue notizie, nel 1942 invece sul fronte greco-albanese morì il figlio Fortunato.
Ma nemmeno queste avversità fiaccarono le volontà di Pier Amato che il 25 luglio del 1943 in occasione dell’arresto di Mussolini su ordine di Vittorio Emanuele incontrava i rappresentanti dei partiti antifascisti comaschi al fine di riorganizzare la vita pubblica con criteri democratici. Pier Amato era considerato l’emblema dei valori democratici e l’8 settembre dello stesso anno tenne in occasione di una manifestazione di operai un pubblico comizio nella Piazza Duomo di Como dove alla presenza di centinaia di persone con molto coraggio invitò la popolazione a recarsi in Prefettura e al Distretto Militare per chiedere la consegna delle armi, costituire la Guardia Nazionale e avviare la lotta contro fascisti e tedeschi
Dopodiché, postosi a capo del corteo si recarono in Prefettura. Non ottennero nulla, ma i fascisti cominciarono una spietata quanto infruttuosa caccia contro Perretta, che fiutato il pericolo si era rifugiato prima a Cremona e poi in Toscana. Dal febbraio del 1944 si trasferì a Milano dove svolse attività clandestina con lo pseudonimo di Amato. Instaurò rapporti molto stretti con le avanguardie operaie e maturò la scelta di iscriversi al partito Comunista. Il suo incarico divenne quello di raccogliere e trasferire soldi e materiali vari in favore della Resistenza comasca e di reclutare uomini per combattere in montagna. Entrò a far parte della Giunta militare che operava a stretto contatto con il Comitato militare di liberazione nazionale
Ma la sua solerte ed intensa attività generò sospetti tra i fascisti milanesi, la spiata di un comandante dei GAP lo consegnò nelle mani delle SS. La sera del 13 novembre 1944 i nazisti fecero irruzione nel rifugio di Perretta che saltò dalla finestra nel tentativo di sfuggire alla cattura, ma venne raggiunto da una raffica di mitragliatore che lo ferì gravemente. Trasportato al Niguarda rifiutò l’intervento che poteva salvargli la vita, si lasciò morire nel timore di finire sotto le mani dei torturatori che gli avrebbero estorto informazioni sui suoi compagni partigiani.
Spirò a Milano la mattina del 15 dicembre 1944.

Alla sua morte i compagni di resistenza vollero intitolare a Perretta la Brigata garibaldina Gap-Sap di pianura. Anche la città di Como, nell’immediato dopoguerra volle onorare il suo sacrificio, tenendo solenni onoranze funebri, in precedenza non autorizzate dai fascisti e mutando il nome alla Piazza Italo Balbo in Piazza Pier Amato Perretta. Oggi la Piazza Perretta, dove persiste lo stabile della Banca d’Italia è una delle piazze più belle di Como, collocata nel salotto buono della città lariana tra la Piazza Cavour con affaccio sul lago e la bellissima Piazza Duomo.
Nel 1983 venne inaugurato sul lungo lago di Como il monumento alla resistenza europea che reca scolpita anche questa frase di Perretta:
Questa tremenda esperienza avrà giovato a qualcosa? S’impone una rieducazione profonda e costante, altrimenti nemmeno questa lezione servirà”.
Nel dicembre del 1998, l’Istituto per la storia del movimento di liberazione di Como, cambiava denominazione in Istituto di storia contemporanea Pier Amato Perretta.
(Gianni Maragno)

mercoledì 1 marzo 2017

nuovo partito della sinistra

Alla caduta di Berlusconi, come già altre volte, la sinistra era a un passo dal governo. Come altre volte andava fermata: le lenzuolate di Bersani e Visco facevano tremare corporazioni ed evasori.
Non è più tempo di stragi, per fortuna (vedi Moro, vedi le stragi del 1992-93) e creare un'altra Forza Italia era impraticabile: fondare una ennesima nuova formazione di destra a fronteggiare il PD sarebbe stato del tutto vano ed ecco l’idea: una variante geniale questa volta: incistidare con un cavallo di troia il PD dall’interno così da trasformare il PD stesso in Forza Italia, senza contrapporgli un’altra organizzazione politica che invece ne avrebbe compattato i ranghi.
E così parte l’operazione: si chiamano a raccolta ex socialisti, ex DC confluiti nel PD, ascari vari e si crea una corrente interna al PD stesso che ha la esplicita missione, non di voltare pagina rispetto al malgoverno dei decenni precedenti, ma di “rottamare” definitivamente la sinistra italiana.
A furor di stampa e di TV (i cui proprietari, portatori di corposi interessi, temono da sempre il riformismo di sinistra) parte "la resistibile ascesa" di Matteo Renzi, creato in laboratorio per infiltrarsi nel PD e far fuori la sinistra. Infatti sin dall'inizio si è legato con ben scelti esponenti del berlusconismo additando invece come da "rottamare" non quelli che avevano mal governato l'Italia per 20 anni, ma chi invece vi si era opposto, ben supportato da novelli maramaldi che in Italia non mancano mai.
Le primarie taroccate - si parlò di cinesi a 5 euro e di elettori di destra, spediti a votare Renzi - fecero il resto: segretario del partito e subito (Enrico stai sereno) al governo. 
Fu già allora evidente che la trappola era scattata: il partito veniva condotto dal Capo e dalla sua cerchia e la sinistra rimaneva ai margini, il governo faceva politiche di centro destra di cui la sinistra non poteva vantare la paternità e da qui il malumore, la richiesta di dialogo interno e la arrogante protervia di Renzi. Quindi, infine, come era stato progettato, la sinistra aveva solo due strade: poteva rimanere nel PD rassegnandosi alla irrilevanza, oppure uscirne, lasciando a Renzi e ai suoi mandanti il controllo del più grande partito organizzato del Paese, divenuto formazione di centro destra ed erede del sempiterno pentapartito e degli aventi causa.
La sconfitta referendaria chiede una svolta politica che Renzi non intende dare e si giunge alla rottura.
Ora occorre provvedere subito a dare corpo a una formazione politica che riunisca il popolo della sinistra italiana, da quello della tradizione socialista a quello della eredità berlingueriana a quello progressista per riportare alle urne quegli elettori che delusi dalle politiche renziane non andavano più a votare e per offrire al mondo del lavoro, al Paese, un programma di governo e politiche di redistribuzione delle risorse, capaci di frenare la disoccupazione, il progressivo impoverimento della popolazione e di arginare le politiche liberiste italiane ed europee; un programma di riforme capaci di rimettere in moto le risorse e i talenti del nostro Paese.
Qui la sfida: gli uomini della sinistra bene fanno a uscire dal PDR (R sta per Renzi) ma debbono immediatamente trovare la capacità politica di creare un'unica formazione di sinistra, unendo le diverse anime ora presenti sullo scenario, con una leadership credibile ed evocativa che sappia parlare al mondo del lavoro, agli sfruttati, agli emarginati, alle classi subalterne che – all’evidenza – non sono affatto scomparse, ma anche a quella parte sana e onesta del Paese che non può più tollerare la corruzione, le spartizioni, i privilegi, le magagne di una politica marpiona che continua a riproporre personale astuto e inadeguato, protagonista di ruberie, sprechi e scempio del patrimonio italiano.
Io propongo di eleggere segretaria del nuovo partito della sinistra Bianca Berlinguer e di affiancarle uomini e donne della società civile, capaci e onesti, mentre i capi storici della sinistra potranno offrire al partito la propria antica competenza amministrativa.

giovedì 19 gennaio 2017

i magnifici 7




Da qualche tempo l’inondazione di film sentimentali, horror e di  animazione è intervallata dai rifacimenti di vecchi film di successo, come Ben-Hur, Conan, RoboCop e c’è da aspettarsi il ritorno dell’ennesimo King Kong e Godzilla, di Uccelli e, ahimè, di My Fair Lady.
Tempi di remake, come se il cinema non fosse più capace di ideare nuove trame, nuovi eroi, nuovi orizzonti di pensiero e di azione cinematografica e con l’aggravante che i rifacimenti di rado sono all’altezza dell’originale.
Con qualche eccezione.
Spicca infatti fra i tanti, il remake 2016 del famosissimo film del 1960 di John Sturges “I MAGNIFICI SETTE”, diretto dal regista nero USA Antoine Fuqua che invece, nel riproporre la nota vicenda dei sette pistoleri assunti da miti contadini per combattere chi vuole depredarli di ogni cosa, riesce ad aggiungere originali angolature della vicenda che rendono il film piacevole e stimolante: con questo film, come neanche negli anni ’70 era accaduto, entra in un western la lotta di classe e la critica anticapitalista. 
Spicca il film perché, a differenza del precedente del 1960 e del film “I 7 Samurai” di Kurosawa, capostipite della trasposizione western, questo ha una esplicita impostazione classista e anticapitalista che nella prima stesura della sceneggiatura del film originale che fu di Walter Bernstein - intellettuale democratico perseguitato negli anni ’50 per quelle presunte attività antiamericane che gli USA vedevano in ogni pensiero libero e in ogni critica al sistema capitalistico – era rimasta molto nel vago.
Fin dall’inizio il film indica il capitalismo come il vero nemico dei contadini che vogliono lavorare la terra e vivere sereni con il frutto della propria fatica, tanto che il super-cattivo che vuole impossessarsi delle loro terre per cercarvi giacimenti d’oro, irrompe nella chiesa, prima di darle fuoco, minaccia i coloni che non vogliono lasciargli tutti i loro averi dichiarando, armi in pugno: “Io vengo qui per l’oro. L’oro. Questo paese ha identificato la democrazia con il capitalismo e il capitalismo con Dio. Perciò voi ostacolando me, non ostacolate solo il progresso e il capitale, ma ostacolate DIO !!  
A quella impostazione che rimase vaga nel 1960, limitata ad un episodio iniziale di forte condanna antirazzista, il nuovo film aggiunge tesi che nel primo film erano del tutto implicite se non assenti. A insidiare la sicurezza del villaggio contadino sia nei 7 Samurai di Kurosawa sia nei Magnifici 7 di Sturges era una banda di desperados, delinquenti comuni che abitualmente facevano razzie nel villaggio; in questo nuovo film di Fuqua il “cattivo” invece è un “capitalista”, un padrone elegante giacca-e-cravatta, uno che si impossessa di terre, le circonda di recinti e guardie armate e le sfrutta per la propria bramosia, uno senza scrupoli che identifica la propria rapacità con il destino del Paese e con la volontà di Dio. Un capitalista.
Ma c’è dell’altro degno di nota: si tratta di un regista nero che nella storia mette a capo del manipolo di “portatori di giustizia” proprio un nero il quale recluta via via come combattenti: un messicano, un sudcoreano e un nativo americano (un Apache? un Sioux? insomma uno di quelli a cui i WASP hanno rubato la terra), per andare a salvare un villaggio di bianchi dalla rapacità di un bianco e dei suoi sgherri. Gran parte dei bianchi del villaggio, poi, non intende combattere per difendere la propria terra e tocca ai nostri 7 morire per restituire la terra a quei bianchi che se ne erano impossessati e che ora erano nel mirino di un bianco più rapace di loro. Ma c’è ancora un altro elemento sorprendente: a capo dei pochi contadini che si mettono a combattere per la riscossa c’è una donna, figura del tutto assente nei due film precedenti e quindi il vessillo della riscossa è affidato alle minoranze discriminate nella realtà, minoranze razziali, etniche e di genere.
Ma c’è dell’altro ancora, a ben guardare: dopo che una parte della città è fuggita per non dover combattere, quelli che sono invece rimasti e si armano per fronteggiare l’imminente attacco degli scherani del capitalista, si adunano e marciano verso il saloon dove i 7 li attendono. La scena dura pochi attimi e va colta al volo, ma è costruita alla perfezione: è la copia – dinamica - della marcia dei lavoratori nel famoso quadro “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Basta confrontare il fermo immagine qui accanto con il dipinto per osservare i dettagli: il trio che precede il gruppo, la donna, il gilet e il cappello dell’uomo centrale, l’uomo massiccio con la barba a destra, sono i dettagli, il colpo d’occhio d’insieme è istantaneo ma netto.
Il Western si conferma un genere universale nel quale possono confluire – come nella tragedia greca  - gli elementi fondamentali del pensiero umano e le vicende cardine della sua storia.
Conforta scoprire che sensibili alle sorti dei lavoratori di ogni tempo vi siano registi come Fuqua e come Ken Loach, quando tocca rilevare che questa sensibilità scarseggia invece in ambienti che per vocazione dovrebbero nutrirne per ontologica costituzione.
Segno dei tempi.

lunedì 25 aprile 2016

25 aprile


(...) In Italia non si percepisce, dopo 71 anni, l’importanza della Liberazione, non circola lo stesso desiderio di festeggiare, la stessa consapevolezza di quanto orribili siano stati i regimi fascisti e nazisti e di quanto sangue sia occorso per liberare l’Italia da quelle dittature e di quanto preziosa sia la nostra democrazia così conquistata (...)


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lunedì 13 luglio 2015

“Rosa in forma di Musica” di Aldo Bagnoni


Sabato sera nell’Abbazia di San Michele Arcangelo a Montescaglioso ho avuto la rara fortuna di assistere alla rappresentazione “Rosa in forma di Musica” di Aldo Bagnoni con l’ottima attrice Giusi Zaccagnini e lo strumentista Gianni Vancheri.
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