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domenica 17 novembre 2019

contro la retorica dei 50 anni di Internet - di Francesco Salerno


La tecnologia e i sistemi digitali pervadono sempre di più ogni aspetto della vita quotidiana, un processo che va di pari passo con la narrazione entusiastica della super informatizzazione da parte dei media e dalla politica. Spuntano ovunque festival ed eventi più o meno grandi dedicati all'informatica e a internet e con il secondo governo Conte abbiamo nuovamente il ministero per l'innovazione tecnologica e la digitalizzazione che era stato soppresso nel 2012.
Tutta la retorica sul miglioramento che l'informatica apporta alle nostre esistenze deve però spingerci a indagare sul prezzo che questo comporta e a domandarci chi paga il conto dei nostri agi. Al di là delle ricadute sociali che comporta l'alienazione dai rapporti reali di giovani e meno giovani impegnati molte ore al giorno con smartphone e pc, esistono anche altre ragioni che dimostrano che lo sviluppo tecnologico ha ben poco di sostenibile per milioni di esseri umani.
Chiariamo subito un punto: non si tratta di essere contrari alla modernizzazione e allo sviluppo tecnologico, è piuttosto un atto di accusa al sistema economico e sociale all'interno del quale avvengono questi processi. Con una lucida analisi marxista alcuni militanti del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL), proprio in occasione dell'ultimo internet festival tenutosi a Pisa a ottobre, hanno pubblicato un documento fortemente critico contro un sistema che grava sull'ambiente e sulle vite di numerosi lavoratori di alcuni Paesi dell'Africa e del Sud-Est asiatico.

I dati raccolti nel documento fanno riferimento a una ricerca svolta da Timothy Longman, professore associato all’Università di Boston ed ex osservatore per i diritti umani per conto del Dipartimento di Stato statunitense nel Congo orientale e Julie Kingler, anch'essa professoressa all'Università di Boston. Longman e Kingler denunciano le condizioni di schiavitù in cui lavorano in Congo gli addetti all'estrazione del coltan, minerale utilizzato per la fabbricazione di computer e smartphone in quanto altamente conduttore. Si parla chiaramente di condizione di schiavitù con esseri umani ostaggio di organizzazioni paramilitari e costretti a lavorare senza sosta per turni infiniti che arrivano a dieci ore al giorno. Tutta la dotazione in mano agli estrattori consiste in una pala e non esiste alcuna misura di sicurezza, inoltre molti scavano scalzi e a mani nude. Non è raro incontrare in questo contesto anche donne impiegate nell'estrazione e che non possono astenersi dal lavoro nemmeno nel periodo della gravidanza: la pena per essersi assentati dal lavoro potrebbe consistere in pestaggi o stupri.
La seconda parte del documento redatto dal PCL riguarda la compagnia Foxconn.  Si tratta di una delle maggiori fabbriche di apparecchiature informatiche al mondo i cui lussuosi uffici amministrativi si trovano a Tucheng, in Taiwan, ma nei suoi impianti di produzione le condizioni di lavoro sono pessime: le leggi della Repubblica Popolare Cinese prevedono che un lavoratore non possa cumulare più di 36 ore di turni aggiuntivi al mese ma sono sistematicamente violate e molti ne svolgono fino a 100, con tanti saluti alle 8 ore di sonno necessarie agli esseri umani: un pluslavoro di 64 ore comporta che, in una singola giornata, un lavoratore si trovi a dover lavorare dalle quattro del mattino fino a notte fonda. Anche in questo caso ai lavoratori non è fornito l’abbigliamento produttivo adeguato al loro lavoro. Spesso sono trattenuti in fabbrica nottetempo per presenziare a riunioni che poi non figurano nella loro paga mensile e sono tenuti a fare il turno di notte anche per un mese di fila per un modesto premio salariale ma il riposo durante il giorno è poco, in dormitori in cui sono tenute a dormire fino a 10 persone tutte insieme. Sono in tanti a non reggere questo sfruttamento violento e disumano e a togliersi la vita, per lo più giovani dai 18 ai 24 anni di età. A proposito dell'età va ricordato come per risparmiare sugli stipendi per i lavoratori, la Foxconn ha pensato bene di far lavorare alla catena anche dei minorenni, soprattutto liceali.
In questo contesto si inseriscono anche le organzzazioni criminali, a cominciare dalla camorra, che spesso coordinano le importazioni di generi di consumo dall'Asia, come più volte spiegato dallo scrittore Roberto Saviano.

Un articolo di David Sarno sul Los Angeles Times riporta come anche marchi come Apple, Nintendo, Dell, Hewlett-Packard, Sony e Amazon collaborino con la Foxconn occultando con una maschera di glamour le violenze sui lavoratori.
Questi sono i modi di produzione dello “sviluppo sostenibile” sbandierato ai quattro venti dai politici dei partiti borghesi, e dunque questa è la base materiale della “competitività” alla base della “crescita” che comporterebbe “sviluppo”. La menzognera retorica liberista è smascherata dalla scienza marxista, che rivela che a crescere e svilupparsi sono solo i capitali dei padroni, che competono con la dignità e la vita degli operai.
Una questione che tra l'altro è strettamente connessa anche al fenomeno migratorio. Oltre ai conflitti armati infatti, anche le devastazioni ambientali provocate dalle multinazionali e lo sfruttamento disumano perpetrato ai danni di milioni di lavoratori contribuiscono a spingere molte persone a lasciare il proprio Paese con la speranza di trovare una vita migliore altrove. Una riflessione che però non trova spazio nel dibattito politico borghese, dove nella contrapposizione tra “porti aperti” e “porti chiusi”, non trova spazio il paradosso capitalista che è all'origine di tutto il problema.

LINK UTILI E FONTI: “Conflict and Coltan in Eastern Congo”, in https://www.youtube.com/watch?v=F5VZtJDYWNM (Url consultata il 24/10/19).
Gurman, Mark, “Apple, Foxconn Broke a Chinese Labor Law for iPhone Production”, in https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-09-09/apple-foxconn-broke-a-chinese-labor-law-for-iphone-production (Url consultata il 24/10/19).
“Inside Foxconn: interviews with factory workers making iPhones and other Apple products”, in https://www.youtube.com/watch?v=-kM58QeNd6E (Url consultata il 24/10/19).
Sarno, David, “Firm shaken by suicides”, in https://www.latimes.com/archives/la-xpm-2010-may-26-la-fg-china-suicides-20100526-story.html (Url consultata il 24/10/19).
George, Richard, “iPhone, Wii U Manufacturer Admits to Employing Children”, in https://www.ign.com/articles/2012/10/18/iphone-wii-u-manufacturer-admits-to-employing-children (Url consultata il 24/10/19).

(Francesco Salerno)







venerdì 26 aprile 2019

Un 25 aprile senza Bella ciao è come un Natale senza Tuscendidallestelle.


Un 25 aprile senza Bellaciao 
è come un Natale senza Tuscendidallestelle.

Eppure nelle celebrazioni del 25 aprile di Matera, da diversi anni, Bellaciao è stata censurata, è scomparsa dal repertorio bandistico che accompagna la celebrazione ufficiale della Liberazione.
La fanfara, oltre all’Inno di Mameli, intona il Piave (!), che ben poco ha a che fare con la Liberazione, e altre marcette meno note: Bella Ciao è stata cancellata.
Si mormora che qualcuno ritenga divisivo intonare questo canto, si dice che qualcuno pensa che sia di parte; ma non si può credere che tale approssimativa conoscenza della Storia patria, che tali opinioni errate - magari diffuse fra la popolazione meno accorta e informata - possano albergare nella mente di chi, da vari scranni, governa la città. Non possiamo crederlo.
Allora come si spiega questa censura?
Il canto, nato da una antica nenia popolare italiana e usato dalla Resistenza quale inno partigiano, negli anni è stato adottato in molte altre parti del mondo fino a divenire il canto per eccellenza di ogni Resistenza contro ogni autoritarismo, contro il fascismo in qualsiasi forma esso si manifesti nel mondo. Di recente è stato adottato anche come inno di chi lotta per salvaguardare il pianeta dall’inquinamento.
E allora^? Canto di liberazione in tutto il mondo, Bella ciao a Matera viene censurata perché considerata una canzone di parte? 
Di parte? Ma quale parte? 
Ebbene è vero, Bella ciao è di parte.  
La liberazione fu di parte, essere partigiani vuol dire essere di parte, essere cioè dalla parte della democrazia e della libertà; dall'altra "parte" ci stavano i fascisti e i nazisti con le loro mostruosità, con i loro crimini contro l’umanità. 
Quelli che da anni a Matera censurano Bella ciao … da che parte stanno?
Dalla parte della libertà, fraternità, uguaglianza e della democrazia o stanno dall’altra parte?
Oggi ci si deve domandare: è abbastanza chiaro a chi dai vari palazzi governa il Paese e la nostra città che il fascismo non è un’opinione politica ma che il fascismo è un crimine?

Quest’anno la organizzazione spontanea di cittadini democratici, autoconvocatisi con un “evento” lanciato sui social, ha cercato di sopperire alla dimenticanza istituzionale intonando Bella ciao durante la celebrazione ufficiale, adunandosi spontaneamente sotto la bandiera dell’ANPI. 

Al gruppo si sono subito aggregati molti dei turisti che in quel momento affollavano la piazza di Matera, consapevoli che a casa loro, nelle loro città, il 25 aprile la banda suona innanzitutto Bella Ciao e la piazza festosa la canta in coro.
Questa spontanea manifestazione che ha colto di sorpresa gli organizzatori dell’evento, ha trovato eco sul Corriere del Mezzogiorno che a firma di Antonella Ciervo ha dato conto della notizia e sul Giornalemio.it a firma di Franco Martina.
Fra la gente in piazza e nelle ore successive l’iniziativa ha raccolto moltissimi consensi.
Si fa appello ora a chi governa la città e ai dirigenti dell’ANPI affinché anche a Matera capitale della cultura, Bella Ciao torni a essere, accanto all’Inno di Mameli, il canto protagonista e identitario di un paese che ha lottato per liberarsi dagli orrori del fascismo e del nazismo.
Speriamo che il prossimo anno tutta la piazza possa cantare non solo l’Inno Nazionale ma anche Bella Ciao, accompagnata dalla banda.


giovedì 13 settembre 2018

Il vaffa di lotta e di governo - 2

Da dove deriva la popolare convinzione diffusa – e assurda - che non occorra preparazione per governare un paese?
Dalla televisione, temo.
Dai quiz alle prove di cucina, ai talent, agli amici, ai tronisti, a tutta quella spazzatura che per tenere incollata la gente a subire spot pubblicitari (unica finalità delle TV), blandisce il pubblico per farlo sentire, il vero centro - invece – dell’intero mondo. 
I quiz alla Mike Bongiorno con concorrenti preparatissimi che sanno milioni di cose, oggi disturbano lo spettatore che subito comincia a detestare quel concorrente tanto sapiente, che lo fa sentir male: ma chi si crede di essere? pensa e cambia canale. 
Se invece il concorrente, nei quiz alla Bonolis, non sa rispondere alle domande più elementari, lo spettatore sente di essere più bravo lui di quello che sta in TV, e si sente gratificato della propria sapienza (ignorando che i concorrenti li scelgono con cura, a bella posta, fra quelli che non sanno rispondere) e non si stacca più da quel programma che lo fa sentire tanto più bravo dei concorrenti-
Tutto ciò al fine di trattenere il pubblico a seguire tutti gli spot che son la ragion d’essere della TV. 
Ben presto, lo spettatore medio, scopre di sapere molte più risposte esatte dei concorrenti e coltiva della propria “sapienza” un’idea sproporzionata sino alla convinzione di poter benissimo, lui stesso, vincere ai quiz, allenare la nazionale di calcio meglio del Bearzot di turno e quindi governare il paese meglio di tanti altri. 

L’immedesimazione con personaggi pubblici compie il resto dell’opera: quanti sono nel popolo quelli che hanno pianto alla morte di Carlo Azeglio Ciampi? Pochissimi. 
Quanti invece si sono disperati alla scomparsa di Frizzi
Qui la chiave: Ciampi è lontano, assente e disturba, come i primi della classe: ma chi si crede di essere? Intellettuale, radical chic, ecc. 
Frizzi invece è come noi, come me, anzi magari un po’ meno, con quella sua bonomia… quindi mi ci immedesimo e se dovessi votare, voterei per Frizzi che è come me
E se mi immedesimo in qualcuno, vorrei che fosse quel qualcuno a governare, perché è come se fossi io stesso a governare. 

Il M5S dice fanculo a tutti, beh, proprio come faccio io, privo di argomenti come sono, e quindi è come me, come noi, uno di noi, e sicuramente, governando come governerei io (che sono il top) governerà bene, anche se (proprio perché) è “competente” esattamente come me.

La restante parte l'hanno fatta i talk-show.

Il vaffa di lotta e di governo.



l'uomo è fatto al 90% di acqua

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Quando ho commentato sui social gli strafalcioni di costui, fra gli insulti di vario genere che non vale la pena riportare, mi fu replicato che “mica solo quelli del classico possono fare politica” e più di recente “lo giudicherò per i risultati. Solo per quelli. Per il resto potrebbe parlare anche in dialetto.

Argomentazioni piuttosto diffuse che segnalano come diffusa sia la convinzione che non sia necessaria preparazione alcuna per amministrare uno Stato e governarne le sorti.
A un uomo di Stato, non si chiede di saper riparare lavatrici: tale competenza sarebbe superflua e irrilevante. 
A un riparatore di lavatrici non si chiede di conoscere la filosofia del diritto: tale competenza sarebbe superflua e irrilevante: deve saperla  aggiustare la lavatrice.

A chi debba amministrare uno Stato, invece, si chiede di conoscere la storia del paese, la geografia del paese, la cultura del paese, le sue dinamiche sociali, e se deve interagire con l'estero, gli si chiede di conoscere i trattati internazionali, e mille altre cose, giusto perché non cada in errore e non si faccia trarre in inganno dai volponi con cui dovrà interagire. 

A un uomo di Stato si chiedono sapienza e cultura superiori alla media perché per scegliere, decidere, governare, distinguere alleanze, discernere rischi, comprendere a fondo un testo scritto, occorre saper utilizzare sottigliezze della lingua e profondità di concetti; sapienza e cultura gli servono come la falce al mietitore, la farina al pizzaiolo, la sega al falegname, al fine di raggiungere RISULTATI.

Per cambiare un paese occorre avere una “vision”, si dice adesso, un progetto di società che comporta, di base, lo studio prolungato delle dinamiche sociali, della economia, delle prospettive produttive, dell’architrave industriale del Paese; conoscenza e cultura sono indispensabili a quella che si chiama ideazione, 
Se si vuole "CAMBIARE", anche solo una lampadina, occorre sapere per lo meno dove mettere le mani. 

Per cambiare uno Stato e le sue leggi dobbiamo dire che uno vale l'altro? O un costituzionalista o un imbianchino, lo sanno fare allo stesso modo? 
Un intervento chirurgico ce lo faremmo fare indifferentemente da un medico o da un carrozziere? 

Grammatica, sintassi, lingua sono lo specchio del pensiero: di pensieri asfittici e approssimativi ne abbiamo già avuti fin troppi nei governi che ci hanno devastato negli ultimi decenni; se il vaffa di lotta è risentimento e negazione dialettica, il vaffa di governo dove ci porta?

A sei-sette mesi dal voto, al di là delle chiacchiere al vento, non si vede ancora nulla di questo "cambiamento".

Come già B, diranno che non li hanno fatti lavorare?





domenica 9 settembre 2018

lavoro, servizi, poste


A cosa stai pensando?

Alla mia cassetta postale. Stamane dentro c'era un opuscolo di offerte speciali di un discount; più tardi è passato un ragazzo e ne ha imbucato uno di un Market. Sto aspettando una lettera per cui a mezzogiorno ho guardato e ci stava un altro volantino, questa volta di grammofoni e televisori. E altri due nel pomeriggio, di dolciumi e motozappe.
E ogni giorno passa gente a distribuire.
La mia lettera, no.
La posta vera la trovo, raggruppata, una o due volte a settimana; i volantini, più volte al giorno, tutti i giorni. E pensavo: postini col posto fisso e ben pagati (credo) passano raramente e solo di mattina, quando la gente è a lavoro e se non ci sei (ma a volte anche se ci sei) ti mettono l'avviso e ti tocca andartela a ritirare tu, la tua posta, pigliando permessi dal lavoro, facendo lunghe code e rischiando pure le multe di quegli avvoltoi sempre in agguato con le giacche fosforescenti: invece 'sti ragazzi, per qualche euro girano, tutta la città a piedi per consegnare le offerte speciali dei supermercati.
Poi ci sono i corrieri delle poste private: passano loro da casa tua e se non ci sei, ritornano finché non ti beccano in casa e poi ti telefonano per concordare la consegna.
Una riflessione è d’obbligo. 

domenica 8 luglio 2018

Gianni Maragno commenta una pagina di Pietro Amato Perretta

  L’indipendenza della magistratura da altre forme di potere, in generale, e dall’esecutivo, in particolare, è stata frequentemente sottoposta nell’Italia democratica a forti tensioni e accesi contrasti, poi, di massima, rientrati con opportuni ed equilibrati chiarimenti.
      È oggetto di larga attenzione proprio in questi giorni, sulla stampa e sui media, l’eccessiva e discutibile acredine con la quale viene proposta la infervorata polemica che vede coinvolti, da una parte, i magistrati “con le loro associazioni di categoria” a difesa dell’autonomia in nome della giustizia e della libertà, e, dall’altra, esponenti di gruppi parlamentari e di rappresentanti di alte cariche dello Stato, forti “a volte anche delle volontà popolari”, spesso intransigenti e mal disposti nel valutare comportamenti e strategie politiche confliggenti con gli ordinamenti espressi dal potere legislativo e tutelati dalla Costituzione, che l’apparato giudiziario è tenuto a far rispettare.
      In questa opposizione di poteri, indebolire una parte a vantaggio dell’altra comporta scompensi difficili da recuperare nel delicato sistema di equilibri previsti dalla Costituzione, con inevitabili ripercussioni sulla qualità ed integrità di quanti sono chiamati a garantire un’equa distribuzione delle risorse dello Stato ed un sano e corretto svolgimento delle mansioni quotidiane di ogni cittadino. Spesso, poi, i comportamenti dei contendenti finiscono per essere inutilmente strumentalizzati.
     Seppure in una diversa temperie politica e ideologica, la Basilicata si dimostra terra contrassegnata nel passato da solido impegno civile e irremovibile fedeltà ai principi di giustizia e democrazia.
     La storia ci ha consegnato con i suoi intangibili documenti i rischi, l’oppressione, le drammatiche conseguenze del Fascismo in Italia. La dittatura scoraggiò qualsiasi forma di dissenso alle sue imposizioni, ma qualche magistrato, nostro corregionale, tenne la schiena dritta e denunciò con grande coraggio malcostume, corruttela, inadempienze ed incapacità del potere.
     È opportuno ed esplicativo riprendere un articolo del periodico “La Separazione” del 23 giugno 1923, di seguito riportato, nel quale Pier Amato Perretta, magistrato insigne, nativo di Laurenzana, esprimeva il suo punto di vista sul regime fascista e riassumeva il ruolo e la figura del Duce con un appellativo, decisamente inconsueto per quel personaggio e in quegli anni:

                                    Il viandante smarrito.

[…] Nessuno vuole preoccuparsi. Tutti intendono avere almeno l’aria di divertirsi, come gli stenterelli che portano a passeggio il loro appetito. Perciò la nostra voce è molesta. Diciamo nettamente che si sta male e che presto si starà peggio, mentre gli scienziati ufficiali si infervorano reciprocamente a trovare nuovi indici del benessere economico.  Intanto il Capo del Governo preferisce parlare di Lorenzino dè Medici, anziché della lira perché questa - se pure sarà coniata col fascio littorio – sarà sempre riluttante ai suoi ordini e più docile verso il dollaro e la sterlina. La volontà di Benito Mussolini, cadute le illusioni taumaturghiche, sfrondata dei ricordi demagocici sull’importanza del castigo e del premio, si va esaurendo nelle gite, nelle cerimonie e nei vaticini. Egli sembra un viandante smarrito che parli con se stesso a voce alta, per avere il coraggio di proseguire. Non ha trovato nel potere quello che non trovò nel suo desiderio di ribellione. Comprende la sua impotenza, ma si ostina ad esaltare l’opera sua e dei suoi seguaci, come se dal semplice ordine di polizia potesse scaturire l’ordine economico e finanziario. Sulla crescente miseria italiana si leva qua e la il rumore dei banchetti di mille coperti, in onore di qualche avventuriero, quasi a celebrare il preferito lavoro delle ganasce. Gli innocenti plotoni dei balilla sgambettano perfino nelle feste dello Statuto e si mischiano agli uomini d’arme, come nelle orde barbariche; le mamme sorridono e temono solo di vederli tornare con i calzoncini pieni. La lesina cincischia le magre carni dei servizi pubblici. La popolazione di tutto il Paese aumenta ogni anno di mezzo milione, mentre si ignora la quota di capitalizzazione. Nessuno si azzarda a fare il calcolo della ricchezza nazionale per metterla a confronto degli 88 miliardi di debito pubblico. L’impossibilità di emigrare aggrava lo squilibrio del Mezzogiorno ed anche il Settentrione comincia ad allarmarsi del grave pericolo. La Confederazione dell’industriastudia, ma vuole prima “individuare le cause che ostacolano lo sviluppo industriale in quelle regioni”, cioè confessa di ignorare quale sia il rimedio. Prima della guerra l’impiego dei capitali stranieri, specie tedeschi aveva potentemente contribuito ad irrobustire la nostra economia. Oggi, nonostante le leggi allettatrici, dobbiamo provvedere più direttamente ai casi nostri, e non è facile impresa, pur avendo fatto il bel gesto di autorizzare la sottoscrizione in Italia di un prestito di duecento milioni all’Austria. È doveroso constatare, senza alcuna ostilità, che finora il Capo del Governo non ha avuto alcuna di queste intuizioni economiche che servano a valutare un uomo di Stato.  Si sono fatti da alcuni nei confronti napoleonici, così come in Francia gli strilloni del re adoperavano l’olio di ricino ed il catrame. Ma bisogna ricordarsi che a Napoleone I non sfuggì mai l’importanza dei fatti economici e se ne occupò spesso personalmente, senza delegare il compito ad un qualsiasi Rocco o ad un bravo De Stefani. Così volle ed attuò, mentre era primo console, la Banca di Francia e comprese la possibilità di fare di Anversa un “entrepot” dell’Europa occidentale, incoraggiando i primi lavori per migliorare il porto, approfondire i canali e sviluppare i magazzini. Sinora il fascismo si può paragonare ad un servizio di carabinieri e di militi sulla piazza di un mercato. È necessario non solo che i militi non vengano alle mani fra loro, ma che il mercato si arricchisca di merci, si animi di contraenti; altrimenti a sorvegliare il vuoto ed il silenzio, basta il custode dei cimiteri a caroviveri ridotto. Occorre meditare ed agire, spronare tutta la volontà a ricercare le cause del benessere del popolo e non accrescere il disagio con una numerosa oligarchia di affamati. […]


     Coinvolge e si definisce come modello educativo il comportamento del giudice di Laurenzana, sia per i privati cittadini che per coloro che sono gravati da impegno istituzionale o svolgono un ruolo ufficiale. Sotto l’aspetto giudiziale, si sottolinea la funzione inalienabile della magistratura per individuare colpe e responsabilità e ristabilire una corretta condizione. Ma rifulge la qualità civile della oggettività dei fatti e dell’equilibrio del loro inquadramento, non avulso, per competenza di conoscenze e capacità di esprimerle, dal contesto di riferimento: economia, politica, storia, tutto concorre alla formulazione del giudizio, che si mostra attento e, quantomeno, rispettoso anche nei confronti del colpevole, ritagliando una definizione che descrive l’incombenza degli eventi sul Dittatore e la sua inabilità nel poterli e saperli affrontare.
     A seguito di questo duro intervento contro il Duce, il Guardiasigilli Rocco dispose il trasferimento di Perretta; fu la prima di una lunga serie di rappresaglie, alle quali reagì con coraggio fino all’ultimo istante di vita.
      La città di Como, dove il Magistrato Pier Amato Perretta trascorse gran parte della sua esistenza, con riconoscenza ha dedicato una piazza e intitolato il Museo della Resistenza a lui “un uono in difesa della libertà”

venerdì 27 aprile 2018

Gianni Maragno ricorda il magistrato partigiano lucano Pier Amato Perretta.

Finalmente si parla di un glorioso figlio della Basilicata, Pietro Amato Perretta, libertario coerente e coraggioso magistrato che non volle mai piegarsi al fascismo del quale invece denunciò pubblicamente la violenza, la corruzione, la responsabilità immensa nel declinoi del Paese. Perseguitato dal regime e dai suoi servi, fu infine partigiano e martire della Resistenza.
Si deve allo studioso Gianni Maragno, scrittore, autore fra l'altro del noto libro "Il treno del bel canto: il disastro di Grassano del 1888" la divulgazione in Basilicata della storia del magistrato partigiano di origini lucane Pietro Amato Perretta; Maragno ha tenuto incontri e conferenze sul tema in Basilicata e a Como, città che ospitò per decenni Perretta e che gli ha intitolato una piazza del centro storico.

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Per la prima volta, quest'oggi, nella Basilicata si è provveduto ad onorare Pietro Amato Perretta, alias Pier Amato, il motivo non è dovuto alla mancanza di memoria ma è da addebitarsi ad ignoranza, in quanto Pier Amato nato a Laurenzana il 24 febbraio 1885 ben presto dovette spostarsi fuori regione e con il tempo si è cancellato persino il di lui ricordo.


La sua famiglia aveva contribuito non poco alla fase risorgimentale, il padre prese parte alla insurrezione di Potenza del 1860 ed anche la madre proveniva da una famiglia molto attiva nella Carboneria, i cui componenti avevano subito carcere e persecuzioni.
Pier Amato nel 1906 a soli 21 anni si laureò a Napoli in Giurisprudenza, con il massimo dei voti e la lode, per poi vincere secondo in Italia il concorso per la magistratura ed essere destinato come uditore giudiziario presso la Corte d’appello di Napoli e successivamente alla Procura di Napoli come giudice aggiunto.
Nel 1910 sposa Gemma De Feo che gli regalerà la gioia di quattro figli: Lucio, Fortunato, Vittoria e Giusto.
Pier Amato si impegnò ben presto in favore della tutela dei diritti individuali, con un’impostazione culturale moderna e progressista; tra i suoi primissimi scritti le inadeguate tabelle ufficiali sull’alimentazione dei carcerati ed il regime detentivo della segregazione. 

Il giovane Pier Amato maturò una concezione propria della libertà, come un giusto equilibrio tra fondamenti individualistici e solidaristici e condusse la propria esistenza in piena coerenza con tali concetti, anche quando ciò determinò conflitti con il pensiero dominante, fino a divenire egli stesso “Pier Amato” un baluardo di libertà ai tempi del Regime.
La sua strenua difesa in favore delle libertà lo portò di frequente a criticare l’operato del Governo soprattutto in tema di indipendenza e riforma della magistratura e sui temi della giustizia, impegno che dovette costargli molto caro tanto che dover subire un allontanamento da Locorotondo dove ricopriva il ruolo di Pretore, alla volta di Conselve e successivamente di Como, ma nonostante tutto il nostro rispondeva colpo su colpo alla complessa macchina governativa che non gradiva nessun tipo di ingerenza e contestava per illegittimi e inappropriati i comportamenti del giovane. Con molto candore Pier Amato faceva presente che la propria attività intellettuale, non violava alcun diritto e non mancava alcun dovere, svolta fuori delle proprie funzioni rientrava nei limiti di libertà di pensiero e di stampa consentiti dalla legge e dai regolamenti.
Il prestigio della Magistratura ed il sistema di equilibrio tra i poteri dello Stato, furono gli argomenti che Pier Amato espose nell’intervento al II Congresso della Magistratura tenutosi a Milano nel 1913, e che gli rese la notorietà di giovane capace e agguerrito e spinsero un altro lucano Vincenzo Torraca, direttore della rivista “La Magistratura” ad aprirgli le porte della redazione del giornale dei magistrati. Pier Amato accettò ed intraprese la collaborazione con entusiasmo.
Subito dopo il Congresso, Perretta venne eletto nel Consiglio centrale dell’Associazione generale magistrati italiani con il massimo dei voti dello scrutinio.
Partito in guerra il 1915 con il grado di sergente, rimase nei reparti combattenti fino al 1917 quando venne promosso tenente dei bersaglieri e destinato al Tribunale di guerra del XVI° corpo di armata, operante in Albania con sede in Valona, divenne Capitano nel 1918 e da maggio ad ottobre del 1919 operò presso il Tribunale militare marittimo di Napoli. 
Nel febbraio del 1921 Perretta venne promosso a giudice e assegnato al tribunale di Como. Nella città lariana avviò collaborazioni giornalistiche con testate di area antifascista quali “Volontà”, che pubblicava scritti di Croce, Gobetti, Parri, Amendola, Calamandrei.

La sua libertà non ammetteva condizionamento alcuno e nei suoi scritti avanzava critiche severe sulla politica economica del governo Mussolini. Al Dittatore italiano era dedicato l’articolo “Il viandante smarrito”, nel quale lo si accomunava insieme al partito fascista, al ministro Rocco e alla Confederazione degli industriali nelle responsabilità per un paese che stava sprofondando in una deriva economica ed istituzionale irreversibile.
La risposta veemente del Ministro Rocco non si fece attendere e venne emesso un provvedimento per la rimozione del Magistrato da Como per altra sede. Perretta venne destinato (nonostante il criterio di inamovibilità dei magistrati, che poteva essere attuato esclusivamente nei casi di incompatibilità o menomato prestigio) a Lanciano. Il Perretta contestò la decisione del Ministro da un punto di vista formale e sostanziale, in quanto arbitrario e rifiutò di raggiungere la sede di destinazione, rimanendo a Como. Ma l’azione governativa non incontrava alcuna resistenza nell’addomesticato Consiglio superiore della magistratura che confermava il provvedimento, ma Perretta non accolse passivamente la decisione ed inoltrò ricorso al Re, con il quale specificava che in caso di conferma della punizione si sarebbe lasciato decadere da magistrato, e al contempo diffidava il Guardiasigilli Rocco.
Nonostante la situazione difficilissima, Pier Amato non si astenne nemmeno in questi frangenti nel ribadire alle autorità governative la sua indipendenza intellettuale e politica dichiarando: non sono fascista, né filofascista, e non vi è alcuna probabilità che lo diventi fino a quando durerà la lode e la tutela della violenza, fino a quando i nati della stessa terra si chiameranno “dominati” e “dominatori” e non già soltanto “fratelli”.
Fuori dalla magistratura Perretta si iscrisse all’albo degli avvocati di Como, esercitando nello studio del collega onorevole Angelo Noseda già Sindaco socialista di Como. Qui subiva ad opera fascista una intimidazione con messa a soqquadro dei locali e l’arresto con detenzione di cinque giorni, prima di essere nuovamente incarcerato e condotto nelle carceri di Potenza insieme a Don Primo Moiana.
Seguiva nel gennaio del 1926 un provvedimento della commissione reale degli avvocati di Como che con decreto sospendeva il Perretta dall’albo, mentre perveniva il provvedimento di confino di polizia per la durata di due anni ed il Prefetto Maggioni di Como, in considerazione delle misere condizioni economiche della famiglia Perretta propose Laurenzana come dimora. Pier Amato trascorse un mese nella sua Laurenzana, prima che il ricorso dallo stesso avanzato in quanto padre di 4 figli in condizioni di forte disagio economico venisse accettato, tramutando i 2 anni di confino a Laurenzana in 3 anni di domicilio coatto a Como.
Gli anni ’30 furono molto difficili per Pier Amato che dovette subire molte violenze ed intimidazioni per le quali denunciò per abuso di potere il questore di Como. Gli anni ’40 furono funesti per la famiglia Perretta, il figlio Giusto venne fatto prigioniero dagli inglesi a Sidi el Barrani e per lunghi mesi i genitori non ricevettero sue notizie, nel 1942 invece sul fronte greco-albanese morì il figlio Fortunato.
Ma nemmeno queste avversità fiaccarono le volontà di Pier Amato che il 25 luglio del 1943 in occasione dell’arresto di Mussolini su ordine di Vittorio Emanuele incontrava i rappresentanti dei partiti antifascisti comaschi al fine di riorganizzare la vita pubblica con criteri democratici. Pier Amato era considerato l’emblema dei valori democratici e l’8 settembre dello stesso anno tenne in occasione di una manifestazione di operai un pubblico comizio nella Piazza Duomo di Como dove alla presenza di centinaia di persone con molto coraggio invitò la popolazione a recarsi in Prefettura e al Distretto Militare per chiedere la consegna delle armi, costituire la Guardia Nazionale e avviare la lotta contro fascisti e tedeschi
Dopodiché, postosi a capo del corteo si recarono in Prefettura. Non ottennero nulla, ma i fascisti cominciarono una spietata quanto infruttuosa caccia contro Perretta, che fiutato il pericolo si era rifugiato prima a Cremona e poi in Toscana. Dal febbraio del 1944 si trasferì a Milano dove svolse attività clandestina con lo pseudonimo di Amato. Instaurò rapporti molto stretti con le avanguardie operaie e maturò la scelta di iscriversi al partito Comunista. Il suo incarico divenne quello di raccogliere e trasferire soldi e materiali vari in favore della Resistenza comasca e di reclutare uomini per combattere in montagna. Entrò a far parte della Giunta militare che operava a stretto contatto con il Comitato militare di liberazione nazionale
Ma la sua solerte ed intensa attività generò sospetti tra i fascisti milanesi, la spiata di un comandante dei GAP lo consegnò nelle mani delle SS. La sera del 13 novembre 1944 i nazisti fecero irruzione nel rifugio di Perretta che saltò dalla finestra nel tentativo di sfuggire alla cattura, ma venne raggiunto da una raffica di mitragliatore che lo ferì gravemente. Trasportato al Niguarda rifiutò l’intervento che poteva salvargli la vita, si lasciò morire nel timore di finire sotto le mani dei torturatori che gli avrebbero estorto informazioni sui suoi compagni partigiani.
Spirò a Milano la mattina del 15 dicembre 1944.

Alla sua morte i compagni di resistenza vollero intitolare a Perretta la Brigata garibaldina Gap-Sap di pianura. Anche la città di Como, nell’immediato dopoguerra volle onorare il suo sacrificio, tenendo solenni onoranze funebri, in precedenza non autorizzate dai fascisti e mutando il nome alla Piazza Italo Balbo in Piazza Pier Amato Perretta. Oggi la Piazza Perretta, dove persiste lo stabile della Banca d’Italia è una delle piazze più belle di Como, collocata nel salotto buono della città lariana tra la Piazza Cavour con affaccio sul lago e la bellissima Piazza Duomo.
Nel 1983 venne inaugurato sul lungo lago di Como il monumento alla resistenza europea che reca scolpita anche questa frase di Perretta:
Questa tremenda esperienza avrà giovato a qualcosa? S’impone una rieducazione profonda e costante, altrimenti nemmeno questa lezione servirà”.
Nel dicembre del 1998, l’Istituto per la storia del movimento di liberazione di Como, cambiava denominazione in Istituto di storia contemporanea Pier Amato Perretta.
(Gianni Maragno)

sabato 21 aprile 2018

Poveri professori - di GIOVANNI CASERTA


Poveri  professori!  di GIOVANNI CASERTA
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L’episodio di delinquenza (altro che bullismo) ai danni del prof. dell’ITC di Lucca è solo l’ultimo di una lunga serie. Sono atti di delinquenza esercitati dagli alunni, spesso spalleggiati dai genitori, ma anche esercitati direttamente dai genitori. Non serve ripetere le ragioni che hanno fatto della scuola il luogo dell’anarchia, da luogo di rigidità e severità morale e legale, quale fu una volta. Bisogna correre ai rimedi. Deve essere chiaro a tutti, in premessa, che non può esistere scuola vera, che non sia seria, rigorosa, retta sul regime dei premi e dei castighi. Purtroppo, una pedagogia e una psicologia lassiste, che vogliono tingersi di sinistra ma ignorano Gramsci e Amendola, troppo fiduciose di una presunta bontà di natura, hanno portato all’idoleggiamento di fanciulli e adolescenti, ritenuti sempre degni di gratificazione o, comunque, di suprema tolleranza e benevolenza, anche in presenza di veri e propri reati contro cose e persone. Al massimo si parla di bullismo, cioè di pugni e violenze, morali e fisiche, fatte per gioco!   
Il fenomeno è troppo diffuso ormai, perché possa essere ridotto a problema scolastico e pedagogico. Si parte dal 68, dal 6 garantito, dagli esami di gruppo. C’erano una volta il rinvio a settembre e la bocciatura per profitto, o la bocciatura per il voto di condotta. C’era la esclusione da tutte le scuole del Regno o della Repubblica. Poi arrivò la carta dei diritti degli alunni ma non dei doveri. Invece ci fu una carta dei doveri per i professori, ma non quella dei diritti. Arrivarono i decreti delegati, buoni sulla carta, ma che suppongono spirito di collaborazione e non di contestazione. E che dire delle chiassose e inutili assemblee d’istituto? Ci si mise Il TAR… C’era una volta il capo d’istituto, istituto per istituto, ognuno su misura per competenze ed esperienza, sempre presente, a garantire ordine ed efficienza. Hanno inventato il dirigente, capo di più istituti dislocati a distanze anche considerevoli, assolutamente diversi l’uno dall’altro, dalle scuole materne ai Licei!
C’erano i genitori che si affidavano agli insegnanti, chiedendo loro aiuto nella educazione dei figli. Ora l’insegnante è il loro nemico e nemico dei loro figli. Ci fu don Milani che – senza disconoscergli altri meriti e ben altro rispetto – si prefisse di fare il pedagogista e discutere di didattica e sociologia, individuando nella professoressa (e non nel professore, chissà perché) la controparte degli alunni, iniqua e arcigna, dispensatrice di voti prima ancora che di sapere. Ne fece il simbolo di una società classista, repressiva e autoritaria, buona con i ricchi, cattiva con i poveri. Povera professoressa, spesso di umile estrazione sociale, fattasi attraverso mille sacrifici e mille rinunzie, vivente ai limiti della sopravvivenza economica! A meno che don Milani non ne volesse fare la serva sciocca del potere.
Ed è questa, purtroppo, l’immagine dominante della professoressa di oggi, sbattuta, trasferita, dileggiata, abbandonata dal dirigente, dal provveditore e dal ministro senza laurea. E fa malinconia, fra tante professoresse, in una scuola tragicamente femminilizzata, un prof. di 64 anni, non meno debole di una qualunque professoressa.  Poteva reagire con una sberla o con un semplice spintone, ma anche con un calcio negli stinchi. Gli opinionisti pontificanti per televisione – quelli e quelle che si occupano di tutto - avrebbero detto che aveva tradito il suo ruolo, che era un violento, che andava cacciato dalla scuola, anzi ficcato dentro come è stato fatto tante volte con maestre d’asilo e di scuole elementari, poi risultate innocenti.
Il prof. potrebbe bocciare. Ma c’è il TAR. L’attuale ministro propone la risibile punizione della non ammissione dei bulli agli scrutini. Ci sarà il TAR che, se non altro, immediatamente sospenderà la sentenza. Poi si vedrà. A noi è capitato in un lontano passato, per un esame di Stato.  Il prof. poteva ricorrere al dirigente. Manfrina. Anche il dirigente ha le mani legate e non ha voglia di crearsi fastidi. Poteva ricorrere ai Carabinieri. Quante cose devono fare i Carabinieri! Ma come faceva a tornare in classe il giorno dopo? E sarebbe stato esposto alle rappresaglie delle famiglie. Rovinare così il futuro dei ragazzi! – si sarebbe detto! E si sarebbe cacciato in un tunnel giudiziario che, considerati i tempi della giustizia italiana, sarebbe andato al di là della durata della sua vita. Vorrebbe solo andare in pensione. Ma glielo impedisce la Fornero. Allora?
Per tutte le cose dette, il problema è vasto, perché è quello stesso di una Italia, nave senza nocchiere in gran tempesta. Il problema è culturale, sociale, morale. Investe la crisi della famiglia, l’organizzazione del lavoro, il nuovo ruolo della donna, la sfiducia verso le istituzioni, la legge e l’autorità in genere, la tendenza a vedersela direttamente… Ce lo si ficchi bene in testa. L’insegnante è uno che giudica. Le famiglie e i genitori non sopportano persone che diano giudizi e prendano provvedimenti per i loro figli, indirettamente giudicando il loro stesso operato. Vogliono solo giudizi positivi.  Come i poliziotti, come i carabinieri, come i magistrati, gli insegnanti sono persone ormai odiate o spregiate. Le offese loro arrecate, perciò, devono essere intese come offese a pubblici ufficiali, tutori dell’ordine. I bulli di Lucca devono finire in casa di correzione o in galera. Il prof. dev’essere risarcito per danni morali; l’autorità scolastica - il Ministero – deve assumerne direttamente la difesa presso gli organismi giudiziari; la signora che, in pigiama, unitamente al marito, sfregiò il professore, non deve essere in libera circolazione. Non tutti devono andare a scuola, se non lo meritano. Non è giusto che i pomodori li debbano raccogliere solo gli immigrati dall’Africa, anche quando sono laureati e più bravi dei nostri figli. Non è quella la integrazione di cui si parla. La società ha rovinato la scuola; la scuola sta rovinando la società. Il cerchio va spezzato. 
(Giovanni Caserta)

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Passato è il tempo in cui i genitori dicevano: “provesso’ dallo, che noi a casa lo diamo, così si impara”.

Oggi riecheggia in ogni dove: “E CHI SEI TU?”, la URLATA domanda retorica che delegittima alla radice ogni autorevolezza, in un malinteso e fuorviante “paritarismo” che appiattisce ogni ruolo e se uno-vale-uno - come si ripete nelle maggioranze emergenti - nessuno vale più di me e di mio figlio.

Il ’68 in questo andazzo del costume italico non so se c’entri davvero; c’entra di sicuro la TV e il potere identitario sociale degli oggetti di consumo - automobili per i padri, smartphone e zainetti firmati per i pargoli -  il cui possesso omologante rende pari e la differenza che corre fra te e me, me la faccio da me con un bel pugno.

Non ci possono essere obiezioni su come lo Stato debba (DEBBA) intervenire per scoraggiare pesantemente questi comportamenti, con la espulsione di quei malnati da tutte le scuole del Regno, come si faceva un tempo e con il carcere per i padri pugilatori di prof.

Tocca sempre allo Stato, tuttavia, cancellare nella scuola ogni forma di precariato il quale rende ricattabili e deboli i docenti.

Va anche detto però che occorre rivisitare completamente i criteri con cui nella scuola viene scelto il personale docente, il quale non solo non deve essere precario, ma deve essere invece selezionato e “formato” per svolgere quel ruolo, attraverso specifici corsi di qualificazione alla “gestione” delle persone e del gruppo classe.

Non basta solamente vagliare la conoscenza della disciplina che il prof dovrà insegnare; risulta indispensabile che si cominci a valutare la sua attitudine comunicativa ad essere il perno di attività formative e sociali in una scuola frequentata da ragazzi la cui alfabetizzazione civica è la risultante fra il “divismo” cui la famiglia li ha assuefatti e fra la socialità alterata di chi figlio unico vive sempre fra adulti, chiuso in un appartamento e si confronta prevalentemente con personaggi immaginari della TV e dei videogames per lo più violenti e ultrapotenti e auto referenziati.  
Va valutata e selezionata con accuratezza la idoneità del docente a essere al centro di una scolaresca nella quale le dinamiche di gruppo e di branco si manifestano con vigore pervasivo e con virulenza, discernendo se ci sta nel prof il “polso” di saper dettare regole certe di convivenza nell’aula e di saperle far rispettare con autorevolezza. Se la scuola rinuncia a selezionare il suo personale, rinuncia di fatto al ruolo che la società le affida.

E qui temo che gli epigoni italici del ’68 c’entrino in qualche maniera. Nato nelle università, il nostro ‘68, come ribellione dei migliori studenti italiani che combattevano l’accademismo chiuso e antiquato dei nostri Atenei, la sua lotta per il diritto allo studio finì, negli anni 70 per essere la lotta per la promozione senza merito e per il 6 o il 27 politico che ricorda Caserta; ricordo ancora le tante manifestazioni con corteo e tazebao organizzate in quegli anni contro la famigerata “meritocrazia”; errore concettuale e pragmatico che forse resta il perno fondamentale della approssimatività che caratterizza il funzionamento del nostro Paese; ma quell’aspetto tutto italiano del ’68 ha germogliato nel terreno fertilissimo delle clientele, delle assunzioni elettoralistiche, nella gestione feudale dello Stato che concepiva la scuola come il distributore del “pezzo di carta” per accedere “al posto” fisso nella pletorica struttura cardinale del Paese.

Le continue riforme della scuola, negli ultimi anni hanno contribuito pesantemente al degrado che si registra in questi giorni; ogni governo ne ha voluta una; non sapendo né potendo metter mano alla giustizia, alla corruzione, alle mafie, al ritardo scientifico e tecnologico, all’arretratezza del capitalismo nazionale, alla devastazione del territorio, le Gelmini d’Italia si buttavano sulla scuola con riforme che avevano, all’evidenza, il risultato di abbattere la qualità della scuola pubblica lasciandola alle classi subalterne, e favorire le scuole private, confessionali o meno, che formano (quelle sì) il personale e formano infine i ricchi rampolli della classe egemone.

È da queste paludi che la scuola – e l’Italia - deve uscire.
Si tratta di ri-trovare la strada. Se ancore ne esiste una.

Costantino
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Donato Lamacchia Attenzione pero' a non rischiare un moto di nostalgico ritorno al passato. Lo so non e' nell'intenzione di chi ha postato ma un rischio c'e'. Don Milani aveva ragione insieme con Gramsci. Mi chiedo quanto si è fatto per migliorare la didattica? Perché non si investe in classi di massimo quindici studenti, in sussidi didattici moderni che agevolino la comprensione di ciò' che si studia per migliorare il rapporto studente-insegnante? E' giusto pretendere meritocrazia, ma siamo sicuri che la strada, la televisione, internet non siano più efficaci ed efficienti della Scuola, che sappiano "attrarre" più dell'insegnante? Per il resto sono d'accordo, non si può immaginare la Scuola un'isola separata e felice dove non si riproducano i "mali" sociali, tra i più gravi il familismo, il qualunquismo. Se la risposta è il Preside "sceriffo" non ne usciamo.
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