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sabato 13 ottobre 2012

personalizzare






Personalizzare vuol dire adattare qualcosa al nostro gusto personale: un oggetto è personalizzato se è reso singolarmente inconfondibile tra gli altri. Le famiglie reali, le baronie, i casati, le città, adottavano, quale inconfondibile segno di personalizzazione, uno stemma, un simbolo che identificava la famiglia, l’origine e l’appartenenza anche di un oggetto, oltre che di una carrozza o delle vacche di una mandria. Negli antichi forni di Matera, per esempio, il pane veniva segnato da un timbro personalizzato che rendeva inconfondibile la proprietà delle pagnotte fra le tante a cuocere. Personalizzare quindi vuol dire adoperare un marchio originale, diverso da quello di tutti gli altri, che distingua e identifichi  il singolo senza possibilità di confusione con altro individuo. In molti spot pubblicitari è continuamente ripetuto l’invito a  "personalizzare" tutto quello che si maneggia quotidianamente; in realtà si tratta di fregiare un oggetto il corpo o un veicolo, non con un personalissimo e inconfondibile stemma, ma con la marca del prodotto reclamizzato o con i medesimi segni che ogni altro usa. Tutt’altro che personalizzato, quindi, risulta l’armamentario di suonerie, loghi, macchina semovente, abiti, giubbetti, zaini, diari-scolastici, taglio dei capelli in auge presso la cittadinanza modaiola di ogni età.
Spessissimo l’oggettistica e il corpo sono fregiati proprio con i simboli dei marchi dei prodotti, auto moto cellulari e marche di mutande, in un continuo inneggiare all’omologazione che ha del religioso, nella massificazione del fenomeno e nell’ossessivo sforzo del singolo di perseguire l’obiettivo. Il consumatore diviene cartellone pubblicitario vivente; acquistiamo la merce e ne propaghiamo il marchio senza essere retribuiti, ma traendo addirittura soddisfazione interiore dal poter esibire un marchio che non ci appartiene né esalta meriti personali nostri né nostre abilità, ma che sembra avere effetto tonificante sull’umore e sulla nostra autostima. Se poi moltitudini si “personalizzano” con lo stesso marchio o con la stessa pettinatura o con la stessa giubba firmata, allora si affaccia il dubbio che, al contrario, l’invito sia alla omologazione e non alla personalizzazione.
Se ci personalizziamo a questo modo, otteniamo, al contrario, di essere confusi con chiunque altro, rinunciando, in realtà, alla nostra personalità.  
E allora non si spiega: l’invito a personalizzarsi in questa maniera non dovrebbe aver successo alcuno, mentre invece funziona: la gente accoglie l’invito. 
Non quadra. A meno che…
E se invece la mozione interiore che spinge a “personalizzarsi” a quel modo fosse proprio il bisogno profondo di omologarsi? Se la gente aderisse all’invito proprio per fare come fanno gli altri? Se desiderio di molte persone  fosse proprio quello di annullare se stessi, scomparire come individui e sentirsi parte di un gruppo, di una collettività, di una folla, provando quel “sentimento oceanico” di cui riferisce Freud nel suo “Il disagio nella civiltà” come di una ipotesi avanzata da un suo amico quale base del sentimenti religioso? Quella manifestazione dell’istinto del branco che induce a sentirsi rassicurati se si canta in coro lo stesso karaoke in coda nella stessa processione dietro una statua di terracotta, se si ondeggia insieme sulla curva nord, se si recita insieme la stessa preghiera, se si sfila nello stesso corteo con la stessa bandiera, se si è tifosi della stessa squadra, se si ha le stesse idee degli altri, se si ha tutti la stessa fede, se si ha tutti lo stesso colore della pelle. Se tutti insieme non amiamo quelli diversi da noi. E ci difendiamo, e li teniamo ben lontani e se si avvicinano troppo…
Un istinto ancestrale, non contaminato da mediazioni culturali che risale agli albori della civiltà ed è la radice di tutti i genocidi della storia, passati, presenti e futuri.
La pubblicità sfrutta questo istinto presente nella parte più sprovveduta della popolazione per vendere inutili prodotti, altrove ci alimentano guerre infinite.
E così, alla cintola il cellulare, come tutti, il braccio tatuato come tanti, l’ombelico cisposo allo scoperto, le scarpe di due colori e i capelli tutti-frutti, sento che io sono come gli altri e mi rassicuro, non sono diverso dal branco, faccio esattamente quello che fanno gli altri, sto con gli altri e fare quel che fan tutti mi tranquillizza. Nel gregge marchiato, con qualcuno che mi dice ciò che devo fare, sono al sicuro, basta copiare e non fare nessun passo falso. 
È male? Dipende: si tratta di vedere che intenzioni ha il pubblicitario di turno, se farci cantare il tadoriamo, se farci sgolare col repertorio di vascorossi, se guidarci alla conquista dell’Europa con la guerra-lampo, se farci esportare nel mondo intero la nostra fede giusta che quella degli altri è sbagliata oppure venderci soltanto delle innocue pentole nei pullman diretti a San Giovanni Rotondo.

1 commento:

  1. «uomini e donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone»

    Luciano Bianciardi, La vita agra

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