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venerdì 14 giugno 2019

il rito antropologico dei selfie di massa


Confesso che vedere in TV centinaia di persone mettersi entusiasticamente in fila per scattare a se stessi una foto accanto a quel tal politico, mi mette i brividi.
Non per la faccia del politicante furbo che li mette in fila perché tutti gli altri vedano e vogliano anche loro fare lo stesso, ma per la ossessiva ripetitività di un gesto di poco senso che coinvolge così tanta gente in un rito insieme singolo e di massa; non per il messaggio che il politico eroga alle folle, ma per la pulsione imitativa che induce così tante persone a fare esattamente lo stesso gesto che fanno tutti gli altri, in fila in quella città e poi in altre, apparecchiate, in fervida attesa, pronte a ripetere lo stesso gesto, come han visto altri fare.
Gesto - il selfie - denaturato: ciò che dovrebbe essere lo speciale privilegio di un singolo fortunato - esibire il trofeo fotografico di sé col divo per maggior valore dare al medesimo sé - diviene invece ripetizione seriale, di ciascuno, di massa.
Il selfie, cioè, perde la natura di fortunata eccezione del singolo che può vantare fra gli amici una confidenza esclusiva col politico, tale da poterlo stringere in un abbraccio fotografico, e diviene invece rito massivo di sottomissione, di adeguamento, di omologazione necessaria, di obliterazione validante; diviene gesto tribale di rafforzamento della conformità, asseveramento di identità, vaccino dall'angoscia della difformità, della ex-marginazione.
Dall'esclusivistico “solo-io” connaturato al culto dell’ego, il gesto si trasforma in un conformistico e denaturato gesto del faccio-come-gli-altri-ergo sum; sfocia potentemente in un rassicurante “anche-io”, dove l’ego si riafferma solamente nella misura in cui non è difforme dal gruppo omologante, altrimenti è perduto nell'incubo del "solo-io-no". Il gesto diviene il rito antropologico che mette in scena il concetto, l’affiliazione, il credo, l’accesso al mistero predicato. La gente è in fila esattamente come per l’eucarestia; la scena è predicativa del medesimo approccio arcaico di sottomissione/omologazione, un gesto prerazionale: etologico.
Quando la percezione della crisi dilaga, l’incertezza del futuro diviene angoscia. Allora la mente umana vacilla e cerca di aggrapparsi a una speranza, di appoggiarsi a qualcosa, e se la realtà appare scivolosa, se il futuro è immerso nelle tenebre dell'ignoto, la mente regredisce e si rifugia nell'irrazionale: gli dei e il gioco d’azzardo, la fortuna e la cabala, l’astrologia e padrepio, la superstizione e gli amuleti, il santino e il talismano contro il malocchio.
Quando il sogno irrazionale prende il posto del pensiero, anziché elaborare un progetto e agire, si attende, seduti, il miracolo e, al presentarsi dell'occasione, si accorre al tabernacolo, al luogo latino dove il capitano attendeva gli auspici prima della battaglia, al santuario smontabile dei capi biblici, per cogliere parte, per prendere parte: per essere parte di qualcosa che promette un senso.
Così: si svuotano le sedi dei partiti e si riempiono le chiese e le tabaccherie; chiudono le edicole, languono le librerie e prosperano le sale scommesse; al cinema e in TV storie di santi, di magia, di miracoli, quando va meglio: di fantascienza.
Fuga dalla realtà.
Di massa.
Le moltitudini bramano protezione e si dispongono ad acclamare l’uomo, il solo, quegli, colui che promette di risolvere tutti i problemi  - senza nostra fatica - e offre speranza e futuro, grazia e benessere, prosperità e salute.
Lo attendono da sempre e poi lo vedono e al suo apparire li esalta il piacere arcaico di somigliare agli altri, la gioia archetipa del canto collettivo, l'estasi confortante che li lega a un simbolo, a un patto ancestrale. E quello sul palco - i suoi consiglieri conoscono la materia –, simboli brandisce: croci e madonne, i coinemi addensanti e le ossessioni identitarie della coniugazione del verbo: noi siamo coloro che, mentre essi non sono; agita le figure dell’identità e le bacia e le alza al cielo, in ostensione di simboli su simboli nella sceneggiatura antica che parla al preconscio, non alle menti ma al pre-razionale, alle folle delle fedi.
Certe crisi, l’affievolirsi delle coscienze, creano le condizioni perché un singolo uomo possa divenire il depositario simbolico e messianico di promesse potenti; le moltitudini scoprono (!) la fatica – e la inutilità - della democrazia e sposano la facilità della monarchia assoluta, le suggestioni dell’uomo solo al comando, uomo della provvidenza cui si attribuiscono poteri prodigiosi, cui si chiede di posare insieme per una foto ricordo, cui le mamme dan da baciare i loro piccoli nelle parate, mentre gli inni fan marciare i giovani in divisa e sventolano bandierine, sorridenti, le fanciulle.
Dall'irrazionalità di massa, dall'offuscamento della coscienza  non è mai venuto nulla di buono: fascismi, autoritarismi, razzismi, fanatismi, guerre di religione, stermini, genocidi. Totalitarismi.
Solo dopo le guerre, dopo che l’uomo della provvidenza di turno ha mostrato il vero volto della dittatura, le moltitudini si ravvedono e per un po’ partecipano alla cosa pubblica. Per un po’. Poi riprendono a sperare: un nuovo messia, un nuovo sovrano, un nuovo uomo solo al comando che gli prometta paradisi in terra o in cielo e li faccia sognare.
La democrazia è fatica. Perché vuol dire impegno.
Il biglietto per il paese dei balocchi si paga all'uscita. Compito della parte sana di un paese è vigilare all'ingresso. Ma l'ingresso, al momento, appare sguarnito, come le portinerie di vecchi condomini avviati al declino ed alle ruspe.



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